Vado verso il mare, vado verso le colline e i borghi per sfuggire anche solo alla tentazione di fare bilanci e buoni propositi. Se è proprio necessario quelli si fanno il primo settembre con la pelle ancora abbronzata e i capelli asciugati all’aria.
Non è finito niente, non è iniziato niente. È sempre la solita storia, cambia un numero dopo lo zero, è scaduta una patente, cambierà un numero dopo il 2.
Le stesse solite domane, le stesse solite risposte.
Salgo in macchina e vado a sentire il mare, a scrutare l’Albania che non si vede, a camminare sui bordi del lungomare come i bambini, tra le case aperte di Bari vecchia mentre tutte le donne arrostiscono carne e noi passiamo tra i fumi delle braci accese.
Una volta l’Adriatico, una volta il Tirreno, a prendermi tutto il sole, tutta la brezza e poi il gelo per sentire tutte le sensazioni possibili, il caldo e il freddo sulla pelle e riempire di tutto l’ultimo giorno dell’anno. Fino al giorno dopo.
Attraverso fumi di braci, attraverso nebbie di montagne, scintille di sole sui due golfi. In mezzo perfettamente. Lascio il solco. Il solco sugli anni che passano, sui ti rendi conto che è finito un altro anno, sui l’anno prossimo magari, entro i 30 credo di sì.
L’eccitazione, la malinconia, gli abbracci, i baci, i sorrisi, la cupezza. I dieci giorni tra 2015 e 2016 c’hanno avuto dentro tutto lo spettro delle emozioni, del dire fare baciare. Picchi altissimi, down profondissimi, montagne russe spaventose di vuoti d’aria e sangue alla testa. E poi tutto così perfettamente in ordine per crogiolarsi, così come ogni anno, nello spleen e goderne.
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