Se anche non ci fossero altri motivi al mondo (e ce ne sono; e parecchi) per leggere il «Corriere della sera» perlomeno ogni tanto, l’avere strappato alle pagine della «Stampa» un commentatore come Michele Ainis (uno dei migliori costituzionalisti italiani su piazza) varrebbe da solo il prezzo dell’acquisto (o, se non si vuole spendere quei benedetti euro, un giro un po’ più che approfondito qui).
Tutto questo è rivenuto in mente alla ‘povna ieri mattina, quando si è imbattuta nel suo articolo di fondo, che commentava, con chiarezza e intelligenza, le ragioni (più che prevedibili) della bocciatura, da parte della Consulta, del referendum sulla legge elettorale. Poiché la prosa di Ainis è intelligente e limpida, la ‘povna consiglia a tutti di andare a leggere lui direttamente. Ma intanto, visto che la questione referendaria (come ha raccontato a suo tempo) l’ha toccata in passato assai direttamente, prova ad aggiungere un paio di riflessioni a caldo qui.
Ainis parte a spiegare le due ragioni per le quali non era possibile aspettarsi un risultato diverso per entrambi i quesiti sottoposti a referendum: “Reviviscenza, è questo il nome in codice del marchingegno giuridico sottoposto alla Consulta. Ma la giurisprudenza costituzionale ha sempre escluso le resurrezioni (sentenze n. 40 del 1997, 31 del 2000, 24 del 2011); anche perché altrimenti, se un referendum sancisse l’abrogazione dell’ergastolo, otterrebbe il paradossale effetto di ripristinare la pena capitale. E in secondo luogo la Consulta, fin dalla sentenza n. 29 del 1987, ha sempre acceso il rosso del semaforo contro i referendum totalmente abrogativi d’una legge elettorale: in caso contrario ogni legislatura durerebbe un secolo, se il Parlamento non colmasse la lacuna”.
Bisogna ricordare infatti – spiega Ainis – che l’eticità del diritto non è data da ragioni assiologiche o da filosofia morale, ma da un concetto chiamato “certezza” (al quale è legata indissolubilmente, aggiunge la ‘povna a mo’ di glossa, la necessità di non lasciare ‘vuoti’ costituzionali): un valore che per la Consulta non può e non deve essere negoziabile. Questo non significa che la legge non vada cambiata, anzi. E la Corte stessa avrebbe potuto mostrare “qualche grammo di coraggio, rifiutando il referendum, ma al contempo impugnando l’incostituzionalità della legge timbrata dall’ex ministro Calderoli“. E costringendo dunque il Parlamento tutto a mettere l’elaborazione di una nuova legge tra le sue priorità effettive. Così non è stato (anche se in questa direzione vanno i moniti del Presidente della Repubblica; e anche, si dice, le attese motivazioni della sentenza, in maniera più sottile). Resta comunque il fatto che la sostanza era annunciata, e non si cambia. Tutto il resto è comunque sovrastruttura rispetto alla questione autentica, tanto più che (come ricorda Ainis citando Don Abbondio) per certe finezze giuridiche il coraggio uno non se lo può dare.
Sono cose – aggiunge però (più pasionaria) la ‘povna – che l’ex magistrato Di Pietro dovrebbe sapere con certezza; e proprio per questo lei trova particolarmente inopportuni (anche se, per la storia del personaggio, certo non sorprendenti) i toni con i quali il leader dell’Italia dei valori ha commentato la sentenza: parole che – da questo punto di vista – non si distaccano tanto da quelle usate, in contesti metodologicamente analoghi, dal suo grande avversario Berlusconi. Ma qui si apre un discorso che la ‘povna ha accennato anche altre volte, e che è legato alla consapevolezza di cittadinanza, e al ruolo che dovrebbe avere la politica in Italia. Troppo spesso, infatti (fino alla conferma dell’ultimo governo – che ancora gode di successo nei sondaggi in nome del suo non essere politico nella percezione, sbagliata, del paese) il modo di condurre la cosa pubblica – all’opposizione come in maggioranza – ha indotto i cittadini a pensare alla politica come qualcosa di brutto e di marcio, e ai suoi rappresentanti come mostri – senza tenere conto di un fatto comunque ineludibile: che in ogni forma di governo democratica (anche con una legge elettorale, come l’attuale, pessima), i politici, volere o volare, siamo comunque noi. Proprio per questo programmi (anti)politici apparentemente progressisti come quello dell’onorevole Di Pietro, del movimento Cinque Stelle (o di Matteo Renzi) restano diseducativi dentro, perché alimentano (in buona o in cattiva fede? non è dato saperlo) l’idea perversa di un partito come sindacato dei cittadini, associazione lobbistica che dovrebbe riuscire (affermazione priva di significato autentico) “dal basso” a portare gli interessi “veri” in Parlamento, ridotto così a una camera di commercio, o, nel migliore dei casi, a un tavolo di trattativa.
Questo – la ‘povna lo ripete – non vuol dire che questa legge vada bene. E nemmeno – per quanto sia paradossale dirlo – che raccogliere le firme non sia servito a niente. E’ servito a mobilitare sulla questione, a fare (questa volta sì, in modo legittimo!) attività lobbistica, testimoniando (le parole sono ancora di Ainis) “l’odio popolare verso una legge che sancisce il divorzio dei rappresentanti dai rappresentati”. Un divorzio che però non può, né deve, essere giusto: ma l’alternativa, ricordiamocelo tutti, non è inneggiare all’uomo comune (o al melone, o a chi non ha esperienza) in parlamento. L’alternativa è riappropriarci degli strumenti della democrazia indiretta: ed essere consapevoli che – la ‘povna chiude gli occhi e finge di essere tornata per un po’ agli anni Settanta – con buona pace di Beppe Grillo, il vivere è politico, tutto, sempre. In ogni caso.
Magazine Diario personale
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