Ci sono due modi per annullare la comprensione di un fatto: parlarne troppo, o parlarne male.
Ed è esattamente quello che si sta facendo in questi giorni in relazione a due fatti di non poco momento: 1) il disastro della “Costa Concordia” all’isola del Giglio, e 2) la rivolta (ormai non più soltanto siciliana) del Movimento dei Forconi.
1) Per una come me, cresciuta a pane e Salgari, innamorata del mare e della marineria, uno come il comandante Schettino meriterebbe come minimo un paio di giri di chiglia, e poi a terra per tutta la vita — cosa che per un marinaio dovrebbe essere la peggior condanna al mondo. Ma il punto non è il comandante Schettino con le sue manchevolezze (alle quali non aggiungerò alcun aggettivo), povero capro espiatorio di colpe non soltanto sue. Il punto vero e dolentissimo e sottaciuto è il corrente concetto di “crociera” (magari pure low cost): ovvero la convinzione, tanto errata quanto perniciosa, che oggi sia possibile tenere sotto controllo praticamente tutto. Nel centenario dell’affondamento del Titanic, dovremmo avere imparato che, se è molto difficile tenere sotto controllo ciò che è costruito dall’uomo, è umanamente impossibile esercitare un sia pur debole controllo su ciò che umano non è. E, per l’inspiegabilmente negletta legge della Gestalt (altro che complottismi… rileggiamoci Crichton, piuttosto), quattromila persone (compresi bambini, anziani, disabili e adulti incapaci di nuotare) su una nave comandata e servita da personale non esattamente qualificatissimo a centocinquanta metri dalla riva su fondali bassi e scogliosi è molto più che la somma delle parti. Questa roba non è una crociera. Questa roba non è nemmeno la nave dei folli. Questa roba è un grappolo di umanità appeso a poche dita incrociate, nell’illusione ottusa e modernissima che tutto sia per tutti e che un team di progettisti possa avere la meglio sul Caso — il quale è, non dimentichiamolo, soltanto il nome che lo sciocco dà al Fato.
Come diceva Pulcinella, “pe’mmare nun ce stanno taverne”. Bisognerebbe appunto tornare coi piedi per terra, e tributare al mare il rispetto millenario che gli si conviene.
2) Cominciata in Sicilia, la protesta popolare dei “Forconi” si sta estendendo all’Abruzzo e alla Sardegna, e sembra destinata a diffondersi ancora.
Qualcuno, auspico, mi perdonerà se mi cito (il brano che segue è tratto da un articolo sulle rivolte arabe pubblicato sul n. 2 di “Territorio – Mensile di impegno civile fondato da Paolo Albano e Ugo Maria Tassinari”):
«Anche se non ce lo ricordiamo, noi veniamo da un secolo di rivolte. Il fatto che il sistema Europa-Usa non ne abbia tenuto conto nell’orientare la propria politica estera ed economica indica soltanto la sua incapacità di comprendere il contesto globale a favore di un’autoreferenzialità i cui danni sono sotto gli occhi di tutti — e si profilano, ahinoi, destinati a durare nel tempo ancora per un pezzo.
Si trattava, naturalmente, di rivolte contadine. L’Occidente urbanizzato, luogo ideale del (post)capitalismo trionfante, ha minimizzato quei movimenti, relegandoli ai margini dell’attenzione mediatica e facendone oggetto di studio per pochi addetti ai lavori: il mondo contadino, deprivato della sua carica culturale e storica, è stato percepito come un residuo di epoche ormai superate e del tutto ininfluente sulla tessitura degli eventi planetari. Errore madornale, evidentemente.
La classe contadina è, senz’ombra di dubbio, un soggetto storico: lo dimostrano gli infiniti episodi che costellano la storia dell’umanità e che figurano nei libri di scuola — fino alla seconda metà dell’Ottocento, più o meno. Dopodiché, la grande (e rovinosa) avventura dell’urbanesimo sembra spazzar via il contadinato salvandone soltanto qualche brandello buono per le indagini etnologiche e di costume.
Eppure, dal Messico (1910 e anni Novanta) alla Russia (1917), dalla Cina (1927) al Vietnam (1930), da Cuba (1953) all’Algeria (1954) — per non parlare di Nicaragua e Salvador, devastati da decenni di conflitti —, il XX secolo è costellato di rivolte contadine dai caratteri spesso più di guerriglia che di sommossa — e non ne è stata immune neppure la vecchia Europa: nel 1988, a Béziers (Francia meridionale), diecimila viticoltori occitani manifestarono duramente per protestare contro alcune inique misure governative che li riguardavano; nel 1990 e nel 2010 si mosse anche Tolosa, e alla fine degli anni Novanta salì agli onori delle cronache l’agricoltore (nonché attivista no global e sindacalista) José Bové, che con le sue eclatanti proteste riuscì a richiamare l’attenzione dell’Occidente sulla sofferente ma ancora viva realtà contadina francese ed europea. [...] Sarebbe stato possibile prevedere questi sviluppi? Verosimilmente no, perché la concomitanza di fattori tanto numerosi e diversi vanifica irrimediabilmente qualsiasi tentativo previsionale. Tuttavia, c’è un’imbarazzante ovvietà che troppo spesso gli osservatori tendono a dimenticare, e che invece costituisce la base fondante di ogni e qualsivoglia comunità umana: il capo-Stato garantisce sussistenza e sicurezza, e i gregari-sudditi in cambio si accollano precisi doveri. Quando il primo non è più in grado di garantire niente, i secondi non sono più disposti a farsi carico dei loro doveri, e l’equilibrio sociale salta.»
Torniamo ai “Forconi”. Dopo giorni di silenzio tutt’altro che inspiegabile (il territorio c’è, è la mappa che bisogna costruire), i media hanno dovuto necessariamente occuparsi in chiaro della vicenda: e di fronte al fenomeno nuovissimo del marciare affiancati anziché contrapposti, posto in essere da elementi tradizionalmente riconducibili a “destra” e “sinistra”, da un lato è scattata la preoccupazione delle istituzioni e dall’altro serpeggia il nervosismo all’interno delle realtà antagoniste più rigide. Parola d’ordine: delegittimare. E così il Movimento dei Forconi è diventato di volta in volta fascista, massone, mafioso… e dio sa cos’altro — la fantasia può tutto, ma per fortuna qualcuno ragiona ancora. Per quanto mi riguarda, sto a vedere — con l’attenzione che si conviene a questi tempi interessanti.