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“Di ombre, di brume, di fantasmi” di MARIA JATOSTI
Creato il 27 dicembre 2013 da CaffeletterariolugoLa testa incappucciata, la figura intabarrata nella lunga palandrana nera che ne accentua l’altezza, l’uomo procede tutto sporto in avanti, assecondando il ritmo dell’andatura: la gamba sinistra strascicata sul lastrico produce un rumore regolare. Yehoyakim, è questo il suo nome, sosta un attimo a tirare fiato, poi riprende la marcia: spinto avanti il piede destro, scandisce, ora solo mentalmente e ora a mezza voce, il proprio nome; Yehoya-kìm, Yehoya-kìm, Yehoya-kìm , staccando l’ultima sillaba – kim – sull’eco della quale trascina il sinistro. L’esercizio e l’ansia gli accorciano il respiro. L’avemaria è vicina e la strada davanti a sé molto lunga. Ancora una volta i custodi gli sbarreranno l’ingresso. “Sempre in ritardo, vecchio usuraio con quella gamba matta in giro a succhiare il sangue dei cristiani”... La bocca storta in una smorfia di disgusto, l’uomo si cala il cappuccio fino agli occhi. Deve farcela, prima che gli chiudano in faccia il portone. Yehoya-kìm, Yehoya-kìm, Yehoya-kìm, riprende, monotonamente. E’ un bene che gli abbiano imposto quel nome così lungo: a chiamarsi Yoel, come suo fratello, non avrebbe mai potuto regolare il passo sciancato a quella velocità. Tutte le fortune, Yoel, per cominciare, da medico non era obbligato a portare lo sciamannino, quell’umiliante marchio giallo cucito sul cappello o sul lato sinistro della gabbana, al posto del cuore. E della borsa. La mano gli va istintivamente sotto l’imbottitura, dove tiene il sacchetto con le somme riscosse. Sorride. Bene ha fatto la sua Chanah, previdente e saggia, a cucirgli quella tasca nascosta. Il suono delle monete gli dà slancio e confidenza. Oggi gli è andata alla grande: tra prestiti e affitti ha messo insieme un discreto gruzzolo. Sbircia di sotto in su il cielo. Sta scendendo la nebbia: fine e liscia come una coperta di lana spagnola rende tutto ugualmente opaco e indistinto alla vista. La mole massiccia dell’Uguccione gli si para dinanzi improvvisa, ma senza paura. L’odore delle piante di capperi che fioriscono sui bastioni gli allarga le narici. Yehoyakim ama quell’odore che ora si impasta con quello di nebbia e di legna bruciata nei focolari. Da ragazzini con Yoel raccoglievano manciate di frutti piccoli e tondi da barattare con qualche biscotto di beridde o una mappatella di bruscolini salati. Ama ogni cosa di quella città dove i suoi avi, partiti dalla Spagna prima e poi da Ancona, da ormai quasi un secolo si sono impiantati senza drammi e soverchierie, grazie alla condotta lungimirante dei duchi di Ferrara. Tutto gli è familiare: dai portici alla rocca, dalla sinagoga, al Limite, all’Arco Clementino, dalla vivace gazzarra della Fiera, al chiasso dei mercati del mercoledì, dal Paviglione alla tetra sagoma dell’Ospedale degli Infermi... L’echeggiare dei rintocchi di una campana lo distoglie momentaneamente. L’aria umida e stillante della sera gli sta penetrando nelle ossa. Rabbrividendo, si stringe nella gabbana. Yehoya-kìm, Yehoya-kìm, Yehoya-kìm riprende a borbottare, riannodando il filo dei pensieri. Le cose si erano messe male con le bolle papali. E così addio privilegi, addio convivenza civile. Dall’avemaria serale all’avemaria del mattino, portoni e cancelli chiusi, tutti dentro, tutti insieme, raggruppati, separati, città nella città, giù in fondo alla via Codalunga... Il selciato gli si fa a un tratto più duro. Sconnesso. Yehoyakim mette un piede in fallo: Azzo Azzo Obizzo e Butoldo! impreca infuriato contro la malasorte e la vista incerta. La mano corre all’interno della gabbana a cercare come sempre conforto nel tinnio argentino delle monete. Placato l’affanno e il battito precipitoso del cuore, Yehoyakim si fa animo e si rimette in piedi. Troppo tardi, tuttavia. Un ultimo sforzo, un pelo, si dice, rassegnato, e ce l’avrebbe fatta senza incappare di nuovo nei rigori della guardia cristiana. Toc toc toc: le nocche ossute contro il buio del portone...
Toc toc toc... La voce gentile ma insistente. Sveglia! E’ tardi! Il quadrante luminoso segna otto e trenta. Il regionale dei pendolari è alle dieci in punto. Alzarsi, fare la doccia, chiudere la valigia, scendere per una imperdibile colazione: una scommessa. La notte è stata difficile: sonno turbato intermittente, sogni sconnessi farraginosi, fantasmi... Colpa delle escursioni storico-letterarie a tavola o del generoso vino locale o delle ghiotte pietanze rinascimentali o, infine, delle letture tardive prima di spegnere la luce... Forse. Cercò di evocare qualche immagine, estrapolandola dalla massa gelatinosa dello strascico del sogno. Figure diverse emergevano a flash a schegge mentre il getto quasi freddo della doccia le sferzava il corpo ancora caldo del grande letto napoleonico. Donne: l’una, poco vestita, penna d’oca in mano, aria spudorata, da “mistress to an Age”; l’altra, rassicurante, soavemente mesta, sapiente e virtuosa, amica delle lettere e delle arti, e attorno a lei il ciuffo di Byron, il crine fulvo di Foscolo, la fronte grave di Monti, lo sguardo tagliente del Canova, l’ombra difforme di Leopardi: figure di uomini, folle di uomini sedotti, affascinati dalla bella contessa... Il caffè è ottimo, snebbia la mente. Sbrigati, il treno non aspetta. Un ultimo sguardo al salottino segreto con il caminetto e lo stemma gentilizio... Poi il congedo squisito, perfetto dei “nostri”... Le firme, gli omaggi, i progetti, le promesse... Piove. Fa freddo. Lei ha lasciato la giacca impermeabile nella macchina di Loriano, ieri sera, e non ha ombrello. Niente passeggiata turistica per la città. Attillata nel piumino nero, provvidenziale omaggio della sorridente ospite, scruta dal finestrino bagnato la nobile armonia dei palazzi settecenteschi, le belle logge di ferro battuto, i portoni neoclassici, i fregi ducali, e l’ala-stele bianca, dietro l’ombra massiccia dell’eroe dell’aria, le appare improvvisa e incongrua come un grido, un indice puntato al cielo corrusco di lampi. A Bologna, dicono, c’è il sole: il viaggio continua. Maria Jatosti, Roma dicembre 2013
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