Emergono dalla sabbia, a volte le porta il mare, lascia che si intravedano tra il suo pizzo di spuma semitrasparente e quando l’onda si ritira, sulla battigia rimangono scie lievi, piccole strade, solchi verso l’acqua. Sono conchiglie. Piccole, bianche, lucide. Alcune hanno un forellino: rotondo e preciso come se fossero state lavorate dal minuscolo trapano di un orafo. La sabbia della Liguria è grigia, ci affondo i piedi anche se è febbraio, lascio che le onde si prendano i miei piedi e poi le gambe: so che mi vorrebbero tutta. La corsa è partita da tre ore, forse anche quattro. E qui c’è il silenzio della normalità e dell’attesa, di quando i ciclisti sono lontani ma si sa che dovranno arrivare. Corrono mentre io affondo le mani e le unghie nella battigia umida per raccogliere le conchiglie. Luccicano al sole. Voglio solo quelle che potrò infilare in un braccialetto, forse ne basterà una piccola manciata, ho il polso piccolo, le misure standard le devo sempre stringere.
Mi chino, le cerco tra le onde, dove l’acqua è bassa, le lavo, sento che cantano una con l’altra sul palmo bagnato della mano. Ho sempre avuto questo desiderio di portare con me un pezzo di terra, un pezzo di luogo al quale mi sento legata. In qualunque modo. Prendo qualcosa senza senso e ci appiccico un ricordo. Meglio se sono cose che trattengono gli odori, come per esempio un sasso che ha conosciuto la risacca del lago per lungo tempo. Sa di alghe per sempre. Prendo un fazzoletto di carta, asciugo le conchiglie dal mare e me le metto in tasca. Sì, ci farò un braccialetto. Quelle conchiglie hanno l’odore dell’inizio stagione, della mimosa che qua fiorisce mentre di là dal Turchino nevica. Hanno l’odore del ciclismo, della sua attesa, della sua carezza ruvida, del suo abbraccio tenero e gelido come il vento che fa spumeggiare il mare. Vola un gabbiano, un altro e un altro ancora, i loro versi si confondono con le grida di due bimbi che giocano. Il Trofeo Laigueglia passa di nuovo in centro, sotto il traguardo, prima di allontanarsi ancora. Cinque in fuga poi il gruppo. Qualche minuto: non c’è speranza per loro. Ci sarà volata, forse. Come da copione. Una signora si siede sul muretto, chiede se la corsa è già passata. Lei aspetta l’autobus per Alassio. Se non passa non importa, ma se passa è meglio. Aspetta l’autobus al di là delle transenne, come noi aspettiamo la corsa. La vita, il ciclismo, la quotidianità, le biciclette: tutto si intreccia sempre, si unisce in un punto che è saldato da cose troppo forti per rompersi.
“Nonno, a cosa ci serve il libretto della corsa?”
“Di ricordo” gli risponde semplicemente lui.
Mi giro un attimo a guardare quel bambino. Fulmineamente penso che racconterò di lui, che sarà il fulcro di questa giornata, anche se è solo un piccolo uomo che mi è passato a lato tra un muro e una transenna. Penso a quante cose ho tenuto per ricordo quando ero piccola, non ne volevo buttare neanche una, forse le ho ancora, schiacciate tra tutte le altre in una scatola sempre troppo piccola. Cosa è significativo e cosa no? So solo che il ciclismo ha riempito mille scatole e altre ne riempirà dentro di me. Qualcuno dice che i ricordi sono cose per la gente che giovane non lo è più ma non è vero. Le conchiglie cantano in tasca e so che quando tornerò a casa e le annuserò sapranno della spiaggia grigia mangiata dal mare e sarà un po’ come quando la nonna mi diceva di ascoltare la conchiglia che teneva nella credenza per sentire i rumori delle onde. Questi piccoli bianchi gusci di molluschi saranno il ricordo di oggi, di questo sport che è come l’acqua: è calma e furiosa, stringe e libera, va e torna. Torna, soprattutto. Senza appuntamenti, in luoghi non fissi.
D’altronde le anime simili sanno già a che ora dovranno aspettarsi, dove e perché.
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