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“Di tanto tempo” che c’era e che ora non c’è più. Di Paolo Vincenti e dintorni

Creato il 25 febbraio 2011 da Cultura Salentina

di Maurizio Nocera
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Il libro di Paolo Vincenti, Di tanto tempo (Questi sono i giorni)” è stato presentato giovedi 3 febbraio 2011 a Sannicola con gli interventi di Danilo Scorrano, Assessore alla Cultura del Comune, di Antonio Calò, attore, che ha letto alcuni brani del libro, e Maurizio Nocera, la cui relazione è qui di seguito pubblicata.

Alessandro Pinzo, su «Paese nuovo» di venerdì dicembre 2010, alle pp. 6-7, col titolo “Nel Debordare”, traccia un interessante profilo bio-bibliografico dell’avventura letteraria di Paolo Vincenti, questo giovane appassionato e onnipresente poeta, giornalista, narratore, che sembra avere, anzi ha, la forza cosmica di essere presente in tutte le manifestazioni letterarie o artistiche che si vanno tessendo in questo nuovo Salento che continua a gonfiarsi come una mongolfiera. In un angolo di uno sperduto paesello della nostra provincia c’è la presentazione di un libro di tale o tal altro autore?

Ebbene, se ti capita di passare da quei luoghi, magari perché sei stato invitato per tutt’altra faccenda, lì ci trovi il Vincenti, che è andato a sentire la presentazione del libro, oppure è lì ad ammirare le opere di tale o tal altro artista. Poi non è che in quel posto, egli è andato solo per il gusto di vedere, sentire, ammirare, no, perché, qualche giorno dopo, in uno qualsiasi dei tanti nostri fogli di stampa, leggi la sua recensione, il suo intervento su quella data iniziativa. Trovo accattivante lo scritto del Pinzo, soprattutto quando fa la critica letteraria ai libri di Paolo. Certo ci sono delle affermazioni – e sono tante – con le quali concordo, con altre, invece, – per la verità solo una – un po’ meno, quella in cui – in accordo con Antonio Errico – giudica la meta-narrazione del Vincenti un «mondo affollato solo da un narcisismo bambinesco», sia pure «onesto».

In questa furiosa fase letteraria di poeta, giornalista, scrittore, Paolo Vincenti non è affatto intento a mirarsi allo specchio e tessere quelle che consideriamo essere le sue stesse brame, al contrario, mi sembra che egli sia totalmente attratto dal furore filosofico della conoscenza, da un vortice fagocitante di un sapere sempre più vasto, che il buon Antonio L. Verri, chiamava fame di letterarietà. È questo l’aspetto che a me affascina di Paolo, che più m’intriga e che sempre più mi spinge a inseguirlo nelle sue avventure picaresche e per tanti versi, ma questo lo riservo in primo luogo a me stesso, donchisciottesche. Mi affascina, fino all’invidia (peccato grave questo per un vecchio “scrivitore” come me), l’elegante giudizio conclusivo di Alessandro Pinzo, quando scrive: «Come per la “reverie Bachelardiana”, gli scritti di Vincenti sembrano stare in bilico, in uno stadio intermedio di oscillazione e indecisione, tra il percepire e l’immaginare, il sentire e il ricordare; tra logica degli svegli e quella dei dormienti; nell’inframondo tra coscienza e inconscio, lo scintillio vagante, il barlume introduce ad una realtà depotenziata: “un meno d’essere si sforza verso l’essere”».

Bello, filosoficamente ineccepibile, letterariamente adatto, sentimentalmente toccante. Per questo lo cito e lo faccio mio, e so che l’autore non me ne vorrà. Dopo aver letto Pinzo, mi è venuto da intuire che egli, quando ha scritto il suo pezzo per il quotidiano leccese, forse non aveva ancora letto l’ultimo libro di Paolo Vincenti, “Di tanto tempo. (Questi sono i giorni)” (Luca Pensa Editore, Lecce 2010; Introduzione di Vito D’Armento; Postfazione di Stefano Delacroix. L’autore scrive di essersi liberamente ispirato al racconto “Un giardino nel viale del Lussemburgo” di Gerard de Nerval (1808 -1855), perché altrimenti, e di sicuro, avrebbe aggiunto altre sue utili considerazioni. Io ho avuto l’opportunità di leggerlo, per cui il libro a me è piaciuto, mi ha allegramente tenuto sveglio alcune ore di una notte felice. Alla fine, in fondo in fondo, ho passato una buona notte. Intanto sono rimasto stupito dei due disegni di Maurizio Leo (pagg. 15 e 135). Non conoscevo questo aspetto del poeta di Copertino. Si tratta di due scarabogrammi, dedicati e disegnati apposta «per Paolo». Quello di p. 135 è veramente emblematico, in esso c’è tutto la cosmogonia della poesia di Leo. E poi c’è dell’altro, come, ad esempio, un continuo scambio di debiti letterari fra l’autore e la moltitudine dell’umana letterarietà di Virgilio, Eraclito, De Gregori, Dante, Vecchioni, Alceo, Giuseppe De Dominicis, Jim Morrison, Verlaine, Penna, Guccini,   Bodini, Comi, Pagano, Verri, Fiore, Pasolini, Salvatore Toma, ecc. ecc.

Il volume si presenta come un “collage” di sovrapposizione e intrecci di prose e versi, con al suo epicentro una divinità universale e diversale: il Tempo. Che distilla testi, immagini, eccessività, stravaganze, apparenze, transe e fuochi d’artificio letterari, ma al contempo senso della pesante attualità in cui viviamo, con l’evidente difficoltà a riconoscere la vera natura dell’uomo, per dirla con Montaigne, noi stessi, che non riusciamo più ad essere quello che pensiamo di essere.

Pensare alla propria terra, al luogo in cui si è nati e vissuti, è come pensare di essere radice, scoglio, onda, vento, stoppia, uccello, menhir, pietra e terra della stessa terra, e giardino con un viale assolato che non finisce mai di incantare; è così che l’autore, con drammaticità, si chiede: «Qual è il sugo della storia? Di ogni storia? Di questa mia storia? Quale è il senso di questa passeggiata nel bosco, ora che porto a passeggio la mia vita per le strade di campagna?  Se mi accadesse un incidente, ora, in questo posto sperduto, quando potrebbero trovarmi? E che cosa penserebbero? Magari che sono fuggito dalle mie responsabilità, che non ho retto il peso di questi cambiamenti, dei mutamenti della storia, di ogni storia, che quando passa sopra la turba senza volto, falcidia senza pietà giovani vite spensierate e vecchie vite curvate dagli anni e dai dispiaceri, e passa, sui fallimenti dei perdenti e sulle vittorie dei vincenti. Che cosa penserebbero di me?  Ma qual è il senso di questo vagare senza mèta, di questo girare intorno senza mai arrivare a nessuna destinazione, di questo smarrirmi, ritrovarmi e poi perdermi ancora, che va avanti da quando calpesto questa nera terra che mi ha visto nascere e poi crescere, sempre più complicato, sempre più predestinato, sempre più condannato ad una spenta vita di nero grigiore, di ansie disattese, di palpitazioni deluse?».

Stupenda complicazione verriana, stupendo girare “cult” errichiano (nel senso di Antonio), stupendo perdersi in un bosco/giardino salentino per poi , forse, farsi ritrovare metaforicamente accidentato e farsi dire che «magari [se n’è] andato come [ha] vissuto, a caso. Confusamente, stupidamente, senza dare un senso compiuto [alla sua] esistenza tragica e comica».

Non c’è bisogno di dire altro per capire che siamo all’incipit del romanzo di Vincenti. Non c’è bisogno di spiegare chissà quale arcano per capire che siamo di fronte ad una penna che soffre nel segnare la parola sulla pagina. Non c’è bisogno di spiegarci con chissà quale argomentazione l’autore ha voluto dire anche la sua sul senso della letterarietà, perché egli, già vecchio scrittore di mondo, ci fa sapere che «ha viaggiato, ha studiato, ha guardato, ha esplorato, ha risposto ed ha domandato, sempre inseguendo quella curiosità insaziabile che non si [mai] spenta finché [ha avuto] vita».

Ecco allora perché, ad un certo punto del suo arrotolare parole su parole sul monitor del computer, l’autore di sente stanco di avere «sbagliato cento volte e ancora una, [e] dopo aver capito, se non si fosse sbandato, deviato, corrotto, se non avesse scommesso e perduto, allora non sarebbe uscito in giardino per l’ultima volta, a guardare il cielo, chiedendo:   “Signore prendimi, ora sono tuo; ho trasgredito, quante volte ho tradito, “da bellicosi fuochi  incoronato e da voglie furenti”, ma sono tornato; ora tutti i miei respiri sono tuoi, fa di me ciò che vuoi!».

Ancora splendore di parole che trafiggono gli occhi del lettore e scoprono sentimenti tesi come i nervi del ramarro salentino che, neanche ti scorge all’orizzonte, e subito si cela nella forra più oscura. Ha paura di essere schiacciato dalla macchina assassina il ramarro, ha paura che qualcuno gli canti il “de profundis”, per questo va di qua va di là e balla – scrive l’autore – come un «diavolo rosso, una polca infernale con il suo omicidio, che nessuno rivendicherà, nessuno mai piangerà».

Vincenti vuole scommettere al tavolo del giuoco delle parole scritte, quando in forma di prosa, quando in forma di versi, ora tagliando un senso di un autore antico, ora richiamando un moderno cantautore a lui caro, ora sforbiciando – come fa il grandissimo ed eccellentissimo sarto di testi Umberto Eco – un testo di cui in molti hanno perduto memoria. Ma la sua penna non si perde nella vacuità. Affatto. Scarnifica il passato, soppesa il presente, e scrive: «Che brutti tempi, l’Italia cade a pezzi, e per risolvere ‘sta crisi non abbiamo i mezzi – ed io mi sento impotente di fronte a questo malcostume dilagante.  Al supermercato o al parrucchiere, che brutto affare, la gente inveisce contro il potere». E chiedrsi poi: che ce ne fotte a noi del potere, per cui «beviamo, e con il vino/ gli affanni scacciamo/ […] meglio vivere alla “che me ne fotto”,/ [… E] anche se questo vino ci farà restare in mutande,/ non ci diamo pena, ché la nostra dignità non si svende/ per una ubriacatura, né per l’ennesima, in libertà,/ a noi “malecarne” il vizio non ci batterà;/ domani, potremo anche fingere un contegno aristocratico/ ma stasera, a farci smettere, non servirà neanche il cerusico,/ il quale ha voglia a gufare coi suoi presagi di morte,/ noi ce ne infischiamo della malasorte,/ e il gendarme può anche vaticinarci un destino tetro,/ ma ormai noi non torneremo più indietro,/ perché quando hai assaporato il gusto dolceamaro dell’ebbrezza,/  non puoi più staccarti dall’inebriante cerveza».

E prosegue: «Che importa aver talento?/ Non c’è giustizia a questo mondo/ Con la pistola, io mi procuro/ ciò che voglio, senza sforzo alcuno/ A che serve pregar gli dèi?/ Cosa impariamo dagli eroi?/ Con una rivoltella, tu lo sai/ che puoi fare ciò che vuoi,/ e intanto bevo, anzi tracanno, questo Falerno/ che mi fa sentire come un Padreterno./ […]. Non mi importa di essere un eroe,/ se c’è l’aurea giovinezza che mi brilla nel cuore/ Che mi importa di accumulare ricchezze/ se la splendente giovinezza mi scorre nelle vene./ Voglio una vita bella e desiderabile/ e morire prima di raggiungere l’apice!/ […] ma dopo una vita al massimo, mordente e fuggente, / schiattare senza soffrire, magari in un incidente».

Ma quale incidente, quello di cui aveva parlato all’inizio del romanzo? No. Ma quello del tempo che vive, che tutti noi viviamo, un tempo insopportabile, un tempo che, suo malgrado, ci tormenta con tutti questi festini, e queste donnine, e questi ominicchi incravattati, e questi assurdi block notes di borsa dei valori offesi.

L’autore si chiede se è giusto vivere la vita come questa vita, e se è giusto descriverla come lui la descrive. Ma perché è possibile descriverla in altri modi? Se a lui piace usare la lingua che conosce, quella che ha appreso da infante, con quelle parole che hanno il sapore dolce delle caramelle, perché non le deve usare? Chi glielo impedisce? Vincenti sa che «la bellezza di questo Salento/ [è dovuto a] come i […] padri letterari [di questa terra] lo hanno dipinto».

E il personaggio inventato dall’autore, che è Paolo Vincenti, questo vuole, inventare parole nuove ed altre prendere in prestito a Girolamo Comi, a Vittorio Pagano, ad Antonio Leonardo Verri, a Salvatore Toma, a Vittore Fiore, a Vittorio Bodini. Di fatto all’incanto delle parole della poesia salentina dell’intero Novecento.

Questo egli vuole fare e per questo vuole vivere tale vita, sicuramente diversa da altre, magari eccessiva, stravagante, vagabonda, avventurosa, alla ricerca del viale del giardino del Salento, dentro il quale egli cerca e trova la sua foresta di alberi di parole e, come frutti dolci come il miele, se le raccoglie una ad una per appendersele in una filastrocca fatata, dedicata «a chi c’è/ e a chi ci sarà/ (cha! cha! cha!».

Vivere, mi viene in mente una canzone scanzonata degli anni Trenta di Tito Schipa, e Paolo Vincenti che condanna chi vuole «vivere/ di pochi concetti/ e di molte parole/ di sofferenza mascherata da serenità/ di orgoglio razzista/ di conflitti generazionali/ fra vecchi che hanno dato tutto ma non si sanno rassegnare/ e consegnare il potere/ e giovani che hanno tanto da dire ma non sanno come/ ed hanno ancora interi i denti e tutti i capelli in testa/ e milioni di domande che non/ avranno mai risposta/ di fragile democrazia/ di feste dell’indipendenza con bandiere sventolanti/ e slogan coniati da intelligenze progressiste/ di disprezzo per il conservatore/ e di ammirazione per il modernista/ sempre con una parola giusta/ sull’aumento dei prezzi e sul sindacato/ sulla crisi del mercato e sul debito di coscienza./ Si vive di tristezza [… ma] si vive [anche]/ di noi e degli altri/ di tutti gli altri dentro e fuori/ si parte e si torna/ si beve alla salute/ di calma e di rabbia/ di fiducia e di domani/ di questo si vive/ e di molto altro ancora/ che non ce la faccio più a dire/ in particolare di me e di te/ si vive».

È il tempo poi che dà senso a tutto, che scansiona se stesso e come un cingolato pesante «fa morire di dolore la mente/ è [come] una raspa che sempre lenta rode/ anche nella gioia, il cuore, che non l’ode». E così che, nel romanzo sul tempo del tempo, il personaggio triste di Vincenti tenta il ritorno alla casa, quella «dove tutto ha un’altra dimensione e un altro tempo». Forse alla ricerca di un po’ di serenità, quella perduta di una «umanità adesso […] di nuovo deteriorata, a tal punto che, forse, bisognerebbe fosse di nuovo distrutta e ricreata, ritornando così all’Età dell’Oro, […] la prima donna e il primo uomo». Per questo egli invoca un «nuovo Diluvio Universale, [che venga] a lavare le colpe degli uomini e delle donne e a liberarci dal male. Vieni, grande Diluvio, a lavare l’onta; vieni a distruggere la degenerazione […] Vieni, grande Diluvio Universale, a spazzare la depravazione […] Una nuova era per noi, così, potrà cominciare. Vieni, Diluvio Universale!».

La speranza dell’autore sta nel tempo, in quello decifrato, in quello noumenico, nel tempo perduto e in quello che verrà pur nella disperazione della notte, del buio che impetra, in quella morte che serpeggia tra i colossi di pietra di finisbuterrae, perché egli sente che forse il giorno non più gli appartiene, perché sente che il tempo si è mangiato la vita e senza che lui e la sua donna sappiano, è rimasto solo «un mucchio di ossa che si agitano nella tomba/ nell’infinito niente di tutte le cose».

L’autore si chiede: ma è l’ora del tramonto o dell’alba? E può esistere il tramontalba? Certo che sì. È quello fatto di miele, quello che porta la felicità, quello che non si domanda cosa mai c’è nel vuoto del buco nero, cos’è l’antimateria. Ciò che il personaggio dell’autore sa è che la vita è un passaggio, magari obbligato, e che se sei fortunato, ti capita di fare un passaggio fatto di carezze, che poi si dimenticano, perché «riposte nei cassetti del tempo, abbandonate e favole che credevi perdute, vecchie fotografie che hanno fermato un istante in cui credevi di essere felice, quando l’urlo della giovinezza squarciava il silenzio intorno, quando la tua allegria bastava ad accendere il giorno».

Per questo, per tutto questo non c’è bisogno di «vivere di espedienti, cercando di truccare le carte ad un destino avverso [… perché] qualcun altro ha avuto la sua stessa idea ed è riuscito a realizzare i suoi propositi, battendolo, sia pure di poco, sul tempo. [Lui] misero! Senza tempo, [o con questi brutti tempi], cosa può fare? Non ce la fa a reggere il colpo di questa ennesima delusione. Ed ora, per lui, artista senza arte, partigiano senza parte, che cosa [gli] rimane, se non la morte?».

Ma anche in questo caso qualcosa da fare c’è. C’è ancora qualcuno a cui rivolgersi, quel maestro interiore, quell’io freudiano e junghiano a cui chiedere il perché di tante cose, di tante delusioni, di tanti scuotimenti d’animo, di tante perturbazioni. Così il personaggio si chiede se vale ancora la pena di fare politica, se andare con la destra oppure con la sinistra, o meglio se rimanere «a galleggiare, […] come schiacciato dai dolori di questa città; sofferenza infeconda che non ti dà né riscatto né nuova volontà; c’è l’alba del nuovo millennio alla porta, ma c’è davvero qualcosa di buono in questa sofferenza?».

Ed ecco che ora il personaggio si rifugia in un io bambino, in un «tempo in cui la sua vita era limpida; […] un tempo in cui la sua storia era semplice; prima delle catene, prima del fumo, prima della notte c’è la sera, e prima della sera c’è il giorno, ed è la solita storia del gatto che si morde la coda. [Il personaggio] ha costruito da solo la sua prigione con ponti d’oro ed ora non ne sa uscire, è un labirinto in cui si perde; ogni tanto lancia un grido per vedere se qualcuno fuori lo sente, poi niente, solo il suo lamento, solo il suo sgomento di fronte al mondo. Delusa vita, che si trascina dietro, sbandato, corrotto, deviato; tradita vita, che veloce lo oltrepassa, ha perso con il tempo la sua scommessa; ed è arido, svuotato dentro, senza un’idea, che sia davvero sua, un’idea, che lo porti via da questa sofferenza, da queste responsabilità, e resta così, inchiodato alle formalità».

In fondo in fondo, l’urlo del personaggio del romanzo di Vincenti non è pessimista, non è di un uomo che vive già l’aldilà. No. Affatto. Il suo urlo è un invito all’incontro, un invito alla divisione dei pani e dei pesci; per questo egli grida al mondo «incontriamoci per vivere, incontriamoci per morire, incontriamoci perché abbiamo bisogno di conferme, incontriamoci perché abbiamo solo un giorno prima della fine, incontriamoci per tutti i giorni che abbiamo davanti, incontriamoci per restare fedeli a noi stessi, incontriamoci perché già sappiamo, incontriamoci perché non sappiano ancora niente, incontriamoci per imbrogliarci, per mischiarci e sudarci, incontriamoci per lasciarci e poi riprenderci ancora, incontriamoci perché abbiamo il mondo nelle nostre mani, incontriamoci perché non saremo mai così vicini, incontriamoci perché siamo lontani, e abbiamo bisogno dei nostri punti fermi, dei nostri ideali, perché c’è qualcosa sempre che sfugge, perché c’è qualcosa di più grande per cui lottare, incontriamoci per arrenderci all’amore, incontriamoci per disfarci di noi, incontriamoci per ricrearci a nostra immagine e somiglianza, incontriamoci per rifletterci nello specchio dei pensieri, incontriamoci per cantare la canzone del tempo, incontriamoci per ballare un valzer lento, incontriamoci per figurare la fuga del tempo, incontriamoci per trattenere quello che abbiamo perso, incontriamoci perché ci ghermisca la nostalgia, incontriamoci per creare la poesia, incontriamoci perché lo vuole la vita mia e lo vuole la vita tua, incontriamoci per ammantare la nostra solitudine di festa, incontriamoci per segnare il trionfo di una malinconia, […]  incontriamoci come un poema della mente, incontriamoci perché è dura morire (e vivere) per niente».

Stupendo finale con fuoco d’artificio ultracromatico, stupenda parola che si fa canto, musica, danza che rincuora. Questo e molto altro c’è nel romanzo di Paolo Vincenti “Di tanto tempo (Questi sono i giorni)” che a me, vecchio scrivitore di stanche storie salentine, mi piace leggere e rileggere, soprattutto in quel poemetto vincenti ano (“Illusoria”) concertato col Verri di Caprarica di Lecce e che fa così: «Forse resterà l’eternità dei giorni/ e  quella indolenza di quando, pigri,/ facevamo passare la notte/ senza pensarci, senza darci da fare,/ perché tanto ce ne era sempre un’altra dopo/ Forse resterà quella incoscienza di nuovi traguardi,/ quella incoscienza che non si chiede/ quella afflizione che non ci vede ma ci chiede, di bocca in bocca,/ nuova comunione,/ uno sforzo di condivisione,/ come quando non era difficile sperare/ forse ritorneranno tutte le cose indietro e ricominceranno da capo/ e vedrò l’espressione che era il tuo volto farsi silenzio da cantare, silenzio da amare/ forse rimarrà la civetta nel cavo dell’albero  e quell’orologio a cucù a segnare il tempo/ tutto il tempo di un tempo perduto che non può tornare/ forse resterà questa malinconia, come faro di Palascìa, come sentinella nell’azzurro/ guardiana immobile di ciò che è, di ciò che era e ancora sarà».

Appunto il tempo, quello della terra in cui viviamo e che ha un nome ed un cognome e poeti che si vantano di essere poeti: «Salento […] arido come il letto dei suoi fiumi prosciugati. […] Salento […] duro come la pietra leccese. Salento […] sporco come una discarica a cielo aperto. Salento […] infuocato come le stoppie che bruciano d’estate. Salento […] freddo come la stanza dell’obitorio di quell’Ospedale che non riesci a scordare. Salento […] sempre in ritardo come quel dannato Roma-Lecce che ti riporta indietro, umiliato e sconfitto. Salento […] fetido come quella latrina dove sei costretto ad entrare per non fartela addosso. Salento […] in cassa integrazione ordinaria. Salento […] andato in pensione. Salento […] dissestato come le sue strade. Salento [che], invece di lavorare, va a fare la spesa o a portare a passeggio il cane. Oppure, fa il doppio lavoro. Salento [che] mangia e beve a tradimento. Salento […] in sciopero. Salento [dove] si fa la fame. Scrittori, fotografi, poeti, operatori turistici, editori, politici tarantati, appassionati di salentinerie, direttori di riviste commerciali, organizzatori di sagre e presidenti di comitati feste patronali, farebbero la fame con il nostro Salento. E Bodini, dall’Inferno, se la riderebbe».


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