E' curioso che Susan Sontag si occupi cosi tanto di André Gide già nei suoi primi anni da lettrice. Nel settembre del 1948, quando ha solo quindici anni di età, scrive: "Mi sono immersa in Gide un'altra volta" - enfatizzando quel "un'altra volta" -" che chiarezza, che precisione! Indubbiamente gli proviene dalla propria natura, che non ha paragoni". Giorni dopo, sempre la Sontag, commenta la sua lettura dei Diari di Gide: "Ho finito di leggere questo libro alle due di notte dello stesso giorno in cui l'ho comprato ... Gide ed io realizziamo una comunione intellettuale tanto perfetta che riesco a sentire le doglie del parto per ogni pensiero che lui dà alla luce!"
Questo tragico paradosso del diario, che si trova in Gide, come si trova in Paul Valéry e nei suoi Quaderni, ossia questo annientamento della vita a favore della scrittura, questa canalizzazione della "realtà" verso "l'irrealtà" del racconto privato, personale, "lo straniamento del vivere nella e per la letteratura" - per dirla con Blanchot - finisce per raccontare sempre la stessa storia: la storia della persona che ha speso la propria vita a cercare di scrivere il capolavoro che non è mai riuscito a scrivere! E poi, paradossalmente, invece questo grande libro, questo suo capolavoro finisce per essere proprio il "diario". Il capolavoro è il libro in cui racconta, e riflette sulla ricerca quotidiana di questo capolavoro.