Caldo, tendenzialmente. Dopo mesi passati con il Kway nello zaino per fronteggiare acquazzoni improvvisi ora è il turno della dry season. E' così che qui chiamano quella cosa indistinta che dovrebbe assomigliare all'estate, con la differenza che arriva giusto in tempo per Natale.
E fino a qui abbiamo detto solo di meteorologia; caldo e freddo, sole e pioggia, neve in Val Padana e sole bollente ai tropici. Il tempo, quello vero, bisogna ancora guardarlo negli occhi. Non è così chiaro come mai quelli che hanno inventato l'italiano, e il latino prima di lui, abbiano deciso di chiamarle allo stesso modo, due faccende così diverse.
Cosa avranno mai a che vedere le bombe d'acqua con lo scorrere dei minuti, dei giorni, di un'intera esistenza misurata a giri della terra.
Un caso forse, o l'idea che l'alternarsi delle stagioni sia il più primitivo dei nostri orologi. Qui gli orologi esistono appena. E non li guarda nessuno.
Il passare del tempo, quaggiù, fa affidamento su unità di misura tutte sue. Si conta in pastiglie di Lariam che, una a mercoledì, si riducono sul mio comodino. Si misura a referti di ecocardiogrammi stampati su fogli A5, una pigna che millimetro dopo millimetro cresce sulla mia scrivania con velocità diversa di giorno in giorno, ma comunque inesorabile. Si potrebbe persino misurare negli strati di ghiaia ed asfalto che si accumulano nella strada polverosa che passa qui fuori.
È giunto il momento di andare a letto. Non ho idea di che ora sia. Mi bastano uno sbadiglio e il rumore dei rospi, che entra incessante dalla finestra affacciata sul cortile dell'ospedale.