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Ad essere sinceri nemmeno ero sicuro che si chiamasse proprio così. Del resto tutti li chiamavamo "pittore e figlio di pittore". Luigi (ho controllato!) viene da Moena, una volta era un prete, ha fatto il falegname per una vita e ha un figlio con un sacco di tatuaggi che ama la musica elettronica.Tutto questo, di questo signore imbiancato cresciuto in montagna, non ci racconta quasi niente. Vita dura, quella di Luigi, dura come la corteccia gelata di quei boschi di conifere a picco sulla dolomia, d'inverno. La scorza come granito, ma dentro quel legno buono come il pane, di quelli che puoi farci un burattino senza quasi fare fatica.Il pittore lo chiamavamo così perché, martello e pialla in mano per più di vent'anni, in realtà ha sempre avuto un sogno nel cassetto: dipingere una chiesa. C'è chi vuole fare l'astronauta, chi non vede l'ora di andare in pensione per andare a giocare a carte nel bar del paese, chi ha sempre sognato di avere una macchina d'epoca; a Luigi bastava arrampicarsi su un'impalcatura di legno e disegnare la faccia della Madonna, giusto sopra un altare.I sogni nel cassetto, si sa, rimangono quasi sempre li, in quel mobiletto consunto a bordo del letto. Si chiamano così apposta. Qualche volta, però, c'è almeno un guastafeste che il cassetto lo apre quel tanto che basta per farli uscire e ti chieda di prendere un aereo per andare 40 gradi più al caldo, a pitturare una chiesa nel bel mezzo dell'Africa. Congiunzione astrale perfetta di essere all'improvviso in pensione, volontario e felice.
In Uganda si guida dalla parte sbagliata, le strade sono fatte di polvere, tutti hanno paura di prendere l'Ebola ma ogni giorno muoiono decine di persone per incidenti della strada. Pittore e figlio di pittore giravano in bicicletta, non ho idea di dove le abbiano recuperate, ma era un'ottima soluzione per arrivare in fretta dalla casa delle suore, dove alloggiavano, alla basilica che padre Elio, da anni, sta costruendo poco lontano da qui. C'è l'immagine di questo ragazzo di trent'anni, con il piercing nell'orecchio e una maglietta nera con un cappio disegnato intorno al collo, a tavola con una mezza dozzina di candide sorelle. Ma questa è un'altra storia, basti sapere che si tratta di persona dolcissima e di assoluta disponibilità.In questa storia di Natale ci sono un sacco di altri protagonisti, a cominciare da un camionista del Kenya, un ciccione con una camicia hawayana che muove il volante di TIR largo quanto la strada, ma beve come una spugna e soffre di gastropatia alcolica. Beve a tal punto da arrivare a vomitare una decina di volte al giorno, farsi ricoverare in Medicina al Lacor Hospital e trovare un medico bianco, con un camice bianco a visitarlo, fargli la ramanzina in inglese più lunga della sua vita e dimetterlo il giorno dopo.Ci sono dei canadesi, esperti di tubercolosi, che in questi giorni dividono con noi la guesthouse e la colazione; quando martedì sono tornato per pranzo mi hanno guardato con gli occhi sgranati: "stai bene?". Venti minuti prima un camion aveva travolto un "muzungu" sulla strada qui davanti, pensavano fossi io.
Nei 200 metri tra la mia stanza e la terapia intensiva del Lacor Hospital gioco a indovinare se la vittima dell'incidente sia pittore o figlio di pittore. Entrambi bianchi, entrambi in bicicletta, entrambi nello stesso posò e alla stessa ora: impossibile capire. Arrivo in ICU, mi cambio le scarpe per rispetto delle norme igieniche e la prima cosa che vedo sono gli occhi di Elio.Cioè, io mica lo so se sapete chi è, questo padre Elio Croce. Ma per darvi l'idea è nel Nord dell'Uganda da 40 anni, ha visto più morti di un soldato e fa funzionare qualunque cosa rotta che gli capiti tra le mani. Gli occhi di Elio, quando non ha la congiuntivite, sono tanto belli da essere impassibili, sempre. Quasi sempre, in effetti.La smettono quando ti trovi a parlare in dialetto trentino a un tuo amico, in un letto d'ospedale con un trauma cranico senza avere la minima idea se ti possa sentire.La seconda cosa che ho visto è figlio di pittore, in piedi, inerme e sconvolto, con tutti quei tatuaggi diventati improvvisamente così pesanti e fuori posto, perché nella disperazione ci si sente sempre inadeguati.
In questa storia di Natale c'è spazio per tutti, anche per James Rubangakene. In italiano si chiamerebbe Giovanni Solodio ed è un "bodista" di 20 anni che, ironicamente, ha fatto il falegname per un po' ma qualche mese fa ha perso il lavoro e ora per sbarcare il lunario trasporta persone avanti e indietro tra Gulu e il Lacor Hospital, sul retro della moto. Mangia un sacco di polvere, così tanta che a fine giornata sembra si sia fatto dei colpi di sole biondi. Quel giorno era al bordo della strada, sgranocchiando un pezzo di Cassava fritta sotto il sole. Ormai conosceva pittore e figlio di pittore. Nelle ultime settimane aveva un po' legato con quei due muzungu che non spiccicavano una parola di Acholi e, a dire il vero, non se la cavavano nemmeno troppo bene con l'inglese. Tutti i giorni passavano un pó indolenti davanti ai suoi occhi, stravolti dal caldo, a dorso delle mountain bike. La mattina riposati e puliti, la sera un po' sfatti e ricoperti di macchie di colore, grondate da tuniche e aureole che via via prendevano forma sui muri della basilica.Quando ha sentito lo schianto James ha capito subito, negli istanti successivi tutto ha preso velocemente forma: il cassone del camion aveva colpito qualcuno: un uomo bianco, un po' sovrappeso, non più giovanissimo. Il driver non si era fermato, scomparendo nella solita nuvola di polvere rossa. Ed eccolo il nostro Solodio, con quattro amici, lanciarsi alla rincorsa, in sella alla sua moto eternamente senza benzina, la maglietta rossa con qualche slogan politico passato di moda e gli occhiali da sole. Hanno superato il convoglio, sono arrivati al villaggio più vicino e hanno fatto mettere due macchine di traverso sulla strada per costringere l'autista a fermarsi. L'hanno preso, fatto scendere dal camion e ora è in una cella della prigione di Gulu.Da una settimana davanti al Lacor Hospital i "bodisti" fermano qualunque uomo bianco stia per attraversare la strada, gli chiedono di aspettare, controllano bene che non passi nessuno e allora fanno un segno di via libera.James mi ha accompagnato a prendere un regalo di Natale questo pomeriggio e un po' per caso mi ha raccontato questa storia assurda.Luigi ha chiuso gli occhi sulla ghiaia di una strada di Gulu e li ha riaperti in una terapia intensiva di Nairobi, dopo una lunga operazione per rimuovere due ematomi cerebrali. La prognosi è riservata, essere fiduciosi in questi casi fa sempre paura.Sul comodino di fianco al letto, lo stesso con i sogni nel cassetto, troverà una sua fotografia scattata pochi giorni prima dell'incidente mentre, con il suo fare da mastro Geppetto, indica il soffitto della chiesa. Dietro c'è scritto "Sbrigati, i muri della chiesa ti aspettano".
Questa non è la più classica delle storie di Natale. Del resto qui ci sono 30 gradi, nessuno ha mai sentito parlare di panettone e di conifere, caro Luigi, neanche l'ombra.
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