La figura del pirla la faccio a tempo zero: "ma questi interventi non si dovrebbero fare con il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa?" - chiedo, guardando il bracciale dello sfigmomanometro allacciato al polpaccio di questa ragazza stesa sul lettino di sala operatoria, ancora sveglia. I trasduttori, mi spiegano, ci sarebbero anche, venuti da chissà quale donazione all'ospedale, ma a mancare è la macchina a cui collegarli.
Sono stato invitato da un'equipe di volontari chirurghi otorinolaringoiatri ad assistere a qualche intervento. Sono toscani - e non si potrebbe dire il contrario dati accento e simpatia - e vengono in Uganda da qualche anno a dire che la tiroidectomia, un complicato intervento in cui si rimuove parte o tutta la ghiandola tiroide, si può fare anche qui.
Siamo nelle sale dove operava Lucille (Teasdale) Corti, la chirurga canadese che con il marito e collega anestesista Piero ha avviato l'ospedale nel lontano 1959. Prima di morire di AIDS nel 1996 questa donna, esile e immensa allo stesso tempo, ha condotto instancabile migliaia di interventi chirurgici, spesso complicati, in condizioni quasi sempre proibitive o quantomeno difficili. La sua storia è raccontata in un piacevole Harmony dal titolo "Un sogno per la vita" di Michael Arseneault.
A volte fuori c'era la guerra, quella vera con tanto di fucili e colpi di machete che aprivano le teste in due come zucche mature, e lei operava. C'erano partorienti in fin di vita che venivano portate con colpevole ritardo agli occhi dei medici, e lei operava. A volte c'era la paura che costringeva buona parte del personale sanitario a scappare altrove, e lei operava. C'era la malattia, che le cresceva dentro piegandole le gambe e impedendole di mangiare, e lei operava.
Sunday, la ragazza di 29 anni che giace ora sotto i ferri come morta, con un tubo in gola e il collo aperto in una lunga incisione orizzontale che tengo aperta con i divaricatori di ferro, ha un gozzo come tanti. Di quelli che in Italia vengono operati appena ci si accorge che comincia a cambiare il timbro della voce. Lei, in un angolo di mondo dove i tumori diventano grossi meloni prima di destare qualche perplessità, ormai sembra un grosso pellicano nero e da qualche settimana la fame d'aria era diventata insostenibile.
E allora si toglie la tiroide, se si riesce lasciandone un pezzo perché qui, dove diventa complicato reperire un antibiotico un po' più forte per provare a frenare il dilagare di una polmonite, raccontare a un paziente che dopo l'intervento deve prendere una pastiglia con un ormone dentro, e che deve farlo per tutta la vita, è un'impresa titanica. Qualcuno ce la fa, con un po' di buona volontà e considerevole impegno economico.
Lucille sgridava i pazienti fin quasi alla violenza quando si facevano togliere dallo stregone del villaggio i denti davanti, in una pratica pericolosa di medicina tradizionale chiamata ebino per cui a volte arrivavano in ambulatorio più morti che vivi. Usava i film di vecchie lastre per confezionare custodie impermeabili dove i malati potessero tenere tutta la loro documentazione sanitaria. Quando si trattava di fare un intervento chirurgico per la prima volta non diceva mai "non so come si fa" e si metteva i guanti. Lucille ha deciso di venire in Africa con l'amore della sua vita in un ristorante di Marsiglia, davanti a un bicchiere di vino rosso.
Siamo quasi alla fine, è stato rimosso un intero lobo della tiroide con dei grossi noduli bozzuti sopra. Il flusso dei pensieri si interrompe in tempo per farmi dare una mano a mettere i punti. L'intervento è andato bene, bisognerà fare degli esami del sangue e vari controlli. La ferrista si riposa in fondo alla sala appoggiando la testa sul carrello con gli strumenti rimasti inutilizzati, una delle anestesiste legge una rivista e la luce non è sistemata correttamente a illuminare la ferita. Lucille si arrabbierebbe di certo, ma sotto sotto sarebbe contenta a guardare le cose che sembrano funzionare, anche a distanza di mezzo secolo.
Avreste dovuto sentire i momenti più belli.