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La cassava è un tubero dalla forma irregolare e allungata, con una spessa buccia marrone ricoperta di terra e un interno bianco che sembra quasi luccicare illuminato dal sole della stagione secca. Le donne sdraiate sui loro drappi colorati ai bordi delle strane, incuranti della temperatura, brandiscono piccoli pugnali dal manico in legno che servono per sbucciarla e tagliarla in frammenti sufficientemente piccoli da essere venduti. Si può mangiare cruda, bollita o in piccoli pezzi ineguali che vengono fritti nell'olio bollente, le famose Cassava Chips.
Il nostro autista ed amico David ama raccontare questo aneddoto accaduto qualche anno fa su uno di quei taxi affollati sulla strada per Kampala. Un signore di mezza età, sfruttando gli ultimi centimetri quadrati di spazio rimasti tra i corpi ammassati, comincia a mangiare le sue Chips dal solito sacchetto di plastica trasparente. Dopo un paio di bocconi troppo decisi eccolo stralunare, fare strani mugugni e agitare le braccia nel tentativo disperato di convincere qualcuno a dargli qualcosa da bere per ingoiare il tubero assassino. Sulla macchina, ahimè, nessuna traccia di acqua o di altre bevande. Solo una giovane donna con una bambina piccola al seno. Non ho idea di come l'abbiano convinta, ma il latte materno, spergiura David in una risata grande quanto la pancia su cui poggia il volante, ha fatto "alla bisogna".
La cassava, infatti, è un po' pastosa e, specie in un consumatore alle prime armi, tende a formare fastidiosi agglomerati a cavallo tra esofago e stomaco che hanno l'effetto di una pugnalata al centro del al petto, una sgradevole sensazione di morte imminente, le lacrime agli occhi e il fiato corto.
E parte questo, con la giusta quantità di sale, è assolutamente deliziosa.
Questa notte, al Lacor, sono nati due bambini. Uno di sole 24 settimane, 580 grammi di peso e la speranza appesa a un filo di riuscire a sopravvivere. La mamma, una ragazza di 19 anni alla prima gravidanza, è morta di parto questa mattina lasciando il povero NOME senza affetto, assistenza e latte materno. Al Lacor Hospital ancora non esiste una banca del latte e questo mostriciattolo, pesante un quinto di un normale neonato che riposa sotto le coperte e la luce violetta al caldo della Nursery, ha disperato bisogno di essere nutrito.
Di tette, a dire il vero, ce n'è in abbondanza in un posto dove donna e mamma sono sostanzialmente sinonimi e i nuclei familiari sembrano piccole classi d'asilo. "Il problema - spiega Susan, l'infermiera della Nursery del Lacor Hospital - è una credenza locale secondo la quale anche i figli della mamma che allatta un orfano sono destinati a morire".
Non resta che correre in città e sperare che in farmacia sia arrivato in famoso "pre-nan", il costoso latte per bambini prematuri per sostituire il normale latte materno.
E "pregare forte", ovviamente. Quando succedono simili disastri, quaggiù, invece di arrabbiarsi e prendere a pungi qualunque cosa, tutti si mettono in cerchio, recitano tute le preghiere che riescono e confidano in un piano più grande, che qualcuno ha predisposto in segreto ma con la certezza del lieto fine. Doverosi anticorpi che garantiscono la sopravvivenza dove tutto è difficile? Forse, sembra.
Everlyne ha 26 anni, una piccola diastasi dei denti davanti che proprio non riesce a rovinarle il sorriso e dei vestiti coloratissimi. Si siede con le gambe stese sul lato sinistro di Juba Road e tutti i giorni dalla mattina alla sera mette pezzi di cassava in una grossa padella piena d'olio che frigge su un fuoco di legna e carbone. Con un pezzo di legno mezzo bruciacchiato gira i pezzettini fino a quando non diventano dorati. Allora li estrae, li cosparge di sale e li mette in sacchetti trasparenti che vende a 1000 scellini l'uno. E' lì che da mesi andiamo a rifornirci, ogni volta che vogliamo fare uno spuntino, rischiare la morte per soffocamento, o semplicemente fare due passi con una scusa.
Fino a ieri Everlyne aveva una grossa pancia, tesa e rotonda. Qualche settimana fa, mentre bevevo un birra calda nel bar di fianco, le ho detto scherzando che avrebbe dovuto chiamare suo figlio come me. Ha continuato a friggere, noncurante.
Quando questa mattina sono uscito dall'ospedale, ho notato che non era al solito posto: il fuoco spento, la padella vuota. Il termine della gravidanza, del resto, era proprio in questi giorni. Così mi sono precipitato in ospedale e l'ho vista lì, sotto il portico, con una maglietta da calcio di una squadra inglese, la faccia per niente provata, e un bambino bellissimo avvolto in un lenzuolo bianco.
Mi ha presentato Max, e ci siamo fatti una bella risata.
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