Quasi sempre i discorsi da portico, in particolare la domenica mattina, sembrano dei passi tratti dalla Bibbia dei luoghi comuni. Ecco, appunto: quasi.

Mi chiedo come saremo fra due mesi. O tre. Se saremo stanchi gli uni degli altri; se avremo voglia di tornare alle nostre cose. Alle cose di sempre.O, se al contrario, l'Africa avrà compiuto il suo sortilegio, proprio come dicono riesca a fare. Ripenso a me tre mesi fa: l'ansia, le paranoie, la partenza, i saluti. Mi chiedo come sarà tornare, che effetto farà tornare alle cose di sempre, nei corridoi imbiancati e profumati dei nostri ospedali.Che effetto farà lasciare questo posto.Questo sole.Questa pioggia.Queste persone.Queste mamme che gonfiano un sacchetto di plastica per far giocare i loro bambini e che ridono a bocca piena quando mi sentono parlare acholy. Vorrei non chiedermelo ma non posso farne a meno. Non posso fare a meno di chiedermelo.
Non posso fare a meno di chiedermelo. Anche io, che in fondo mi sento come se mi fossi appena affacciato in questo strano mondo sottosopra, che ogni giorno, ancora, non fa che stupirmi con i suoi contrasti. Perché, pur facendone delle beffe, non riesco a non accarezzarlo questo concetto dell'Africa come luogo di estremi, in grado di farmi rimanere di sasso tutti i momenti.Comunque, nel bene e nel male.Dal sorriso di un bambino che mi abbraccia le gambe per farsi mettere a testa in giù, allo sguardo di chi muore in un letto d'ospedale perché non può permettersi le cure che troppo spesso noi diamo per scontate. Giraffe che ti guardano negli occhi e febbri emorragiche che bussano alla porta; frutti dolcissimi e zanzare che trasportano plasmodi; sole bruciante appena prima di un acquazzone improvviso. E ogni sera, imbacuccato in questa zanzariera bianca in cui trovo sempre un buco in più, mi scopro ad incasellarle, tutte queste esperienze. A fare il mio piccolo censimento quotidiano che assomiglia a mettere dei pesi su una bilancia; ci si affeziona, persino, a questo pensare in maniera dicotomica. Lontano dai nostri lidi, dove tutto è così relativo e rassicurante, nel suo non essere mai sbagliato. Quel colore grigio sfumato di cui siamo tinti noi e le nostre radici, spesso profumato di ipocrisia.L'Africa è un grosso barattolo pieno di migliaia di piccoli semi; sono bianchi o neri. Ogni giorno ne tiro fuori una manciata e, con pazienza, comincio a dividerli. In questa camera che ogni ora sento più mia, se ne stanno accumulando due discreti mucchietti. Li tengo ai piedi del letto, ben separati, non riuscendo ancora a vederli come due inesorabili manifestazioni della stessa medesima cosa. Quello che conterà, alla fine, sarà uno scarto, la differenza matematica tra giusto e sbagliato, dolce e amaro, bello e brutto.Non sono bravo a fare oroscopi, ma ogni volta che ho uno di questi granelli tra le mani ho ben chiaro dove appoggiarlo. Qui, non c'è spazio per le mezze misure.

"In questo continente la la natura assume forme così mostruose e aggressive, prende aspetti così vendicativi e paurosi, tende all'uomo tali trappole e trabocchetti, da costringerlo a vivere in una continua sensazione di insicurezza del futuro, in uno stato d'allarme e di paura perenni. Qui tutto assume forme iperboliche, esorbitanti, istericamente eccessive. Se c'è una tempesta, i fulmini sembrano scuotere la terra dalle fondamenta e i lampi squarciare il cielo; se c'è un acquazzone , è un muro compatto d'acqua che tra un attimo ci sommergerà, schiacciandoci sottoterra: se c'è siccità, è un'aridità che prosciuga fino all'ultima goccia d'acqua, condannato alla morte per sete. Qui nulla mitiga i rapporti tra uomo e natura: non esistono compromessi, gradualità, stati intermedi."Ryszard KapuscinskiEbanoPag. 270




