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Chissà se chi ha costruito questo lodge ci avrà pensato, al frastuono dolce di queste cascate, tanto potente da coprire persino il rumore dei grilli. È la prima cosa che si sente la mattina, rigirandosi nel letto per scappare dai sogni e l'ultima che mi addormenta la notte. Costante, inesorabile, rassicurante persino.L'altra sera, chiacchierando in veranda, abbiamo pensato a quanta energia si potrebbe produrre incanalando tutta quell'acqua in uno di quei lunghi tubi verdi così popolari nelle nostre valli. Discorsi al chiaro di luna, per fortuna crescente, visto che qui oltre un certo orario la corrente elettrica stenta a dare segni di vita. Un'opzione che ci è apparsa in tutta la sua assurdità non appena avuta l'occasione di camminare davanti, dietro, sopra e sotto queste impressionanti torri d'acqua alte fino a 100 metri, tra le più imponenti d'Uganda.Siamo nella regione delle Sipi Falls, parco naturale a sud est del paese adagiato alle pendici dell'Elgon, una montagna alta oltre 4000 metri con la vetta eternamente coperta dalle nubi.
Metto in fila i pensieri scrivendo su questo cellulare reso superfluo dalla totale assenza di campo; le dita un po' intirizzite dal freddo che fanno capolino dalle coperte. La stagione delle piogge non è ancora finita e un'umidità assurda contribuisce a far battere i denti non appena va via il sole; un'idea di inverno in questo angolo di mondo dove le stagioni sono un concetto astratto. Mi sono svegliato da poco e la prima cosa che ho visto è stato il tetto in legno chiaro di questo bungalow. Dopo quasi due mesi di prigionia notturna, non mi è mancata la fitta retina bianca della zanzariera: qui in alto di mosquitos neanche l'ombra. È un bell'edificio in muratura, ben arredato e costruito sul modello di una capanna.I nostri due ingegneri milanesi, nuovo prezioso acquisto di questa compagnia italiana del fil di ferro, mi fanno subito notare che non si tratta di un cerchio perfetto. La struttura, dove la sera si mangia avocado in insalata, riscaldati dal calore di un caminetto a legna, ricorda un bel rifugio dell'Alto Adige. Il proprietario, ci dicono al bancone del bar, è il ministro dei trasporti ugandesi. Capisco perché le strade per arrivare qui hanno persino il guard rail e mi trovo a fantasticare, quasi malignamente, di un'improbabile moglie italiana.La mattina grossi uccelli colorati salgono sul tavolo della nostra colazione e infilano il becco appuntito nello zucchero di canna. Sento la loro glicemia salire pericolosamente in circolo mentre osservo queste piume nere farsi rosse mano a mano che si allungano sotto le ali. Sono stupendi e insieme goffissimi. Per levarsi in volo, mi fa notare Laura, necessitano di una rincorsa lunga e improbabile. Uno mi si è arrampicato sul braccio e si è fermato un po' lì, appollaiato all'altezza del gomito. In faccia aveva una maschera variopinta così simile a quelle di carnevale, che si vendono ai turisti americani sulle bancarelle di Venezia. L'ho guardato negli occhi, neri, spenti. E non ho visto niente.
Siamo a 1795 metri sul livello del mare (qualcuno in più dato che dormo su un letto a castello) e ci sono banani, carote e immensi alberi di caffè. Nessuno è mai stato in America Latina, ma la suggestione è troppo forte per non lasciarsi andare a scontate similitudini. Donne attempate e sorridenti trasportano su ripidi sentieri di montagna grossi sacchi di iuta pieni di pannocchie sulle spalle. Quando ci provo non riesco neanche a sollevarli da terra. Hanno i denti rovinati, la pelle scavata dalle rughe del lavoro e i piedi immersi nel fango. Eppure sono fiere e bellissime.Ci troviamo in faccia alla cascata. La natura, qui, non mi stancherò di ripeterlo, è qualcosa di potente e inaudito. Dopo pochi secondi ci ritroviamo fradici dalla testa ai piedi, come alla fine di un lungo acquazzone tropicale. Il cellulare di David, il nostro impagabile driver che assomiglia a Shaquille O'Neil, affronta gli spruzzi con la sua pancia rotonda e ormai non ci abbandona neanche quando facciamo pipì, non si accende più. Prevedibile, con tutta quell'acqua. Lui, invece di disperarsi, alza le spalle con quell'indolenza così popolare in questo tratto di mondo: l'idea che tutto, in qualche modo, si aggiusterà.
Hakuna Matata.
Patrick, il ranger ventottenne che ci accompagna su questi sentieri sciorinando i nomi di tutte le piante che incontriamo, entra con pochi spiccioli in una capanna a bordo della strada. Ne esce con un sacchetto pieno di riso, afferra il Motorola e ce lo immerge dentro. È mezzogiorno. Alle 7pm - dice - sarà pronto. Sembra una ricetta della prova del cuoco, solo un po' più lunga. Non funzionerà mai, ne siamo già certi.
C'è molto altro; c'è un camaleonte che appena mi si è appoggiato sulla camicia a quadretti ha cambiato colore, gli occhi di un bambino di 7 anni che gioca alla guerra con le erbacce brandendo un machete arrugginito. C'è lo sguardo spaventoso dall'alto della cascata e 80 gradini su una scala di legno sospesa nel vuoto. C'è un giro giro tondo con tante mani nere e solo due bianche, la paura dei pipistrelli nelle grotte, il sapore del bacon la mattina appena dopo aver fatto yoga a piedi nudi sul prato umido. Ci sono tante cose che, per un motivo o per l'altro, non riesco a scrivere.
La sera arriva improvvisa mentre osserviamo quella piana chiamata Uganda dall'alto di questa collina al centro della valle. L'orizzonte è un piatto verde e sconfinato interrotto da specchi d'acqua, piantagioni di caffè e puntini marroni. Sono piccole capanne, viste come si vedono da un aereo. Saremmo pronti a giurare che siamo stravaccati sull'altura disegnata nella scena iniziale del "Re Leone", quando una vecchia scimmia spelacchiata solleva un giovanissimo Simba davanti al suo futuro regno. Tutti gli animali della savana festeggiano con versi di giubilo mentre l'ottima colonna sonora di Ivana Spagna racconta della vita come "una giostra che va". Ridiamo, cantiamo, aiutati dalla puntuale birra media mentre il tramonto ci sorprende improvviso.
Questo posto, in realtà, è dove sedeva fino a una cinquantina di anni fa il re della tribù del luogo. Rimane un masso di pietra a vestigia di un trono. Il nostro imponente autista ci si è seduto sopra, impunemente.Lo sentiamo urlare improvviso. Niente saette divine, ha solo estratto il suo telefono dal riso, in effetti le sette se ne sono andate da un pezzo.Funziona, e io capisco che devo smettere di chiedermi un sacco di cose.
Hakuna Matata
Qualche pazzo ha montato qui un'altalena di legno a picco sulla valle. Prego che le robuste funi annodate a questo grosso albero reggano il mio peso mentre mi godo l'aria sulla faccia. Nel momento di inerzia in cui rimango sospeso appena prima di ondeggiare all'indietro, sembra davvero di volare.In lontananza si vedono solo montagne e foreste.In un angolo, laggiù, c'è anche la cascata. Da qui non fa più rumore.
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