Gulu, domenica 15 settembre
Avete presente le capanne? Proprio quelle, quelle che da bambini vi divertivate a disegnare con i pastelli sui fogli Fabriano. Rotonde, marroni, con il tetto di paglia. Senza porte o finestre. Ecco, qui la gente, la maggior parte, ci vive davvero.
Ed ecco che la mia prima domenica mattina in questo angolo di mondo la passo così, passeggiando sotto il sole cocente in questa appendice del villaggio che si sviluppa dall'altro lato dei binari di una ferrovia ormai dismessa.Ai lati di questa strada sterrata, affollata di motociclette d'annata e donne di ogni età con taniche d'acqua in equilibrio sulla testa, le abitazioni tradizionali spuntano come funghi, talora in piccoli gruppi ordinati sopra uno spiazzo comune di terra rossa, talora isolate tra le palme verdissime. Ci si sente come catapultati nella striscia di un fumetto e più di una volta mi trovo ad immaginare qualche improbabile grande puffo di colore che esca a salutarci. Mi accompagna Carlo, un radiologo lombardo di stanza a Gulu. Parla l'acholi, una specie di strano dialetto che usano qui, e lo salutano tutti.
Mi racconta come la vita sia cambiata qui nei dintorni negli ultimi anni, la tecnica migliore per costruire una capanna che resista alle intemperie, e il nome di questo buffo tubero simile a una grossa canna di bambù che i ragazzi masticano con vigore, appoggiati ai loro mototaxi a caccia dei rari clienti diretti in città. Nome che, ovviamente, ho dimenticato prima ancora di pensare di scriverlo qui.Camminiamo diversi km, mi concedo qualche fotografia discreta ai volti di questi bambini seminudi, dagli occhi profondi e bellissimi.C'è chi zappa la terra di un campo di patate dolci, chi pompa acqua dal pozzo, chi siede all'ombra di un albero di Papaia guardando gli altri passare.
Un operaio in tuta blu e caschetto giallo ci saluta dall'alto di un palo della luce, dieci metri più in alto.Sulla via del ritorno passiamo dalla chiesa dell'ospedale. Qui la messa domenicale, mi dicono, dura ore. La gente, in parte assiepata fuori dalla chiesa in piccoli santuari d'ombra al riparo dalla canicola, canta a squarciagola.La domenica si pranza tutti insieme, in questa guesthouse dove alcune signore di colore dai seni abbondanti, fasciati in grembiuli a quadretti, cucinano per noi. Sorrido pensando che persino quaggiù ho trovato il modo di non farmi da mangiare da solo. L'acqua è fresca e pulita, le patate un po' troppo cotte e il caffè è quello solubile.
Nel pomeriggio leggo un po', faccio un tuffo in piscina e un giro al mercato della vicina città. Compro un orrendo cappello rosso con una scritta bianca per evitare che questo sole tropicale mi ustioni la fronte; troppo tardi. Faccio merenda mordicchiando una dolcissima canna da zucchero, appena prima che, svelto e discreto, il sole tramonti. È l'ora in cui le zanzare si affollano sotto la veranda dove ci si trova a chiacchierare per tirare ora di cena. Autan, birretta e qualche risata. A intervalli regolari salta la corrente e un silenzio improvviso smaschera il canto delle cicale.Tutto questo per dire che la domenica è sempre domenica, in qualunque continente ti trovi.