Lacor Hospital, 16 settembre
Questa mattina, mentre lottavo per far adagiare il burro d'arachidi sul pane tostato, al Tg1 hanno detto che in Italia era il primo giorno di scuola (ebbene si, perché persino qui nel nord dell'Uganda c'è una piccola enclave italiana che prova a rimanere al passo con le notizie nostrane).Per me era la prima mattinata di lavoro in questo nuovo ospedale nel cuore dell'Africa. Un primo giorno così insolito eppure simile a tanti altri.Perché a trent'anni, si sa, se pure non ci si può dire vecchi, bisogna ammettere che ci si è già lasciati qualche primo giorno alle spalle.Con quel leggero sottofondo d'ansia appena sufficiente a prolungare di qualche minuto l'arrivo del sonno la notte prima, quel "cosa mi metto!?" ovviato solo in parte dalla divisa di ordinanza e quel fastidioso (eppure inevitabile) carico di aspettative e pretese.
Non che abbia sognato di arrivare a scuola senza scarpe, ma quando sono uscito dalla porta di casa, misurando con le mie scarpe da ginnastica la breve distanza dal padiglione dell'ospedale che mi attende, mi è sembrato di avvertire sulle spalle il peso di quella cartella dei Transformers di tanti anni fa.
C'è una sala medica, un capo-reparto, un unico saturimetro portatile e una sfilza di studenti intenti a provare la pressione ai pazienti. Ci sono i camici bianchi, i camici blu, i camici verdi. Ci sono le cartelle che non si trovano mai, gli errori di scrittura, le domande a bruciapelo durante il giro visite.Poi, con le espressioni serie, le cravatte annodate e gli appunti scritti veloce su taccuini improbabili, ci si trova tutti in una stanza a discutere dei pazienti più gravi. Visto da qui il reparto di medicina del Lacor St. Mary Hospital di Gulu non è così diverso da quelli dei nostri ospedali. Poi peró, da una finestra socchiusa, come se niente fosse, entra una farfalla. È immensa, elegante, perfetta, coloratissima. Sorridono tutti e capisco che è un po' un altro mondo.