Diario di Lola, diciottesimo giorno, contatti

Da Bibolotty

Foto di Eugene Recuenco
A letto, dopo aver finto di guardare un film e di navigare un po’ sul web, ha provato a leggere qualcosa, anche se era distratto e spesso alzava lo sguardo nel vuoto e formulando chissà quali ipotesi annuiva e scuoteva la testa. Era un grosso libro, uno di quei romanzi da mille pagine tutta storia e niente poesia, una di quelle infinite saghe familiari tra lupi e vampiri, uno di quei fantasy che mi facevano arricciare il naso, che letto uno, letti tutti. Ha spento la luce e io, rannicchiata nel suo sonno e nel suo respiro, ho provato per un po’ la sensazione di essere viva. Mi sono distesa sul suo corpo, troppo magro, e ho sentito i tendini rispondere involontariamente all’ansia e all’angoscia con brevi sussulti. Per spingere il tempo in avanti, e ricacciare indietro le ombre che di notte si fanno moleste, ho percorso mille volte il profilo della stanza facendo la conta di mobili e cose. L’armadio, il mio, che sembra crollare sotto il peso del tempo e degli abiti, troppi, ammucchiati in anni di scelte mai casuali. Quello di Max, dove camicie, pantaloni, biancheria e giacche, ipotizzavano, litigando tra loro, l’esito della sua decisione del mattino dopo, su chi avrebbe avuto l’onore di accarezzargli la pelle chiara. Prenderà me!, diceva la giacca grigia al maglione blu notte, No, me!, le rispondeva quella di velluto a coste, più nuova, meno impegnativa, quella comprata in autunno, a Napoli, nei “Quartieri”, in una sartoria dove ci eravamo rifugiarti da un pomeriggio di pioggia incostante e dalla quale uscimmo con la testa confusa, con un foglietto di quaderno scarabocchiato e tre abiti da ritirare. Le spazzole e le piccole toilette di legno mi guardavano come scolarette attente, in ordine di grandezza, dallo scrittoio rococò. Acquisto di mia suocera e del suo buon fiuto. Regalo di un mattino d’autunno che non seppi rifiutare, quando lo vidi lì, sulla porta, che pareva un orfanello ciccione e affamato accanto al tizio che l’aveva trasportato e che aspettava di entrare. L’ho preso con me e l’ho sempre trattato con amore, come gli altri, nutrito con oli essenziali, trattato con antitarli e lucidato a dovere, nonostante covassi per lui un odio sottile e a ogni intarsio e altorilievo, maledicevo la sua nascita e la sua provenienza. Così come le poltrone ottocento, due sorelle gemelle e pettegole, relegate in due angoli bui e distanti tra loro perché non parlassero di continuo, troppo piccine per sedersi comodamente, troppo ingombranti per non servire a nulla. La mia vita è piena di “non voglio” evitati e di sorrisi forzati, messi su alla meglio ogni volta che preferivo avanzare a passi incerti verso un compromesso e l’indebolimento graduale della mia volontà. Destino di chi preferisce ubbidire, di chi opta per dei comodi e brevi “te l’avevo detto”, pronunciati magari a bassa voce, piuttosto che lottare perché il proprio gusto vinca su quello degli altri. Come quando Olimpia mi trascinava in giro per gli acquisti di stagione e sceglieva per me abiti che piacevano soltanto a lei, nonostante i miei ripetuti no e i musi lunghi che via via si facevano dei “ti farò vedere”, ripetuti tra i denti allo specchio del camerino, spietato, nel restituirmi un’immagine troppo magra e troppo alta per quella roba piena di fiocchetti e balze. Ma i troppi “vedrai che ti combino”, aguzzi, si sono rivelati un tranello, una corda ben tesa su cui sono inciampata ogni qualvolta ho scelto di vivere al contrario di come avrebbe fatto lei, mai, comunque, come avrei voluto io. Forse albeggiava quando ho riconosciuto le sagome piccolissime e piene di curve delle bomboniere in bella vista sul comò.  Quella di Ambra che vive in perenne nausea da gravidanza, di Daniela che combatte l’ansia da prestazione e la competizione a forza di sedute di psicoanalisi e sopporta il marito, esigente e anaffettivo, a colpi di vibratore, e quella di Luciano, il povero Luciano che vive con una donna che non lo ama e ancora non lo sa. Chissà se loro c’erano al mio funerale. La collezione di fiabe sonore sono sempre lì, dalla prima all’ultima, quelli i miei libri, gli unici pezzi sulla libreria di vetro e ferro battuto, accanto alla porta. Sono le stesse fiabe di altre notti insonni, quando inseguivo nel deserto il principe Kamar ormai cieco e Alì Babà, cui speravo di offrirmi un giorno come schiava, pur di fuggire a tutto quel chiacchiericcio fitto e ostile, quando restavo in ascolto di certi discorsi, i loro, nella camera accanto. Eppure ho fatto di tutto per sciogliere certi nodi. Ho cercato ogni notte la mia voce tra tutta quella chincaglieria non mia, tra le bambole antiche di Olimpia, che di lassù, dal mio armadio già all’epoca sgangherato, mi guardavano, in attesa che dicessi loro qualcosa per animarsi, anche loro infelici, come gli spiriti quaggiù. E forse anche loro non sono che animelle perdute racchiuse in un corpo di cartapesta anziché in una tomba, in un guscio che le lascia al buio, nell’anima che ognuno di noi decide per loro, a tu per tu con nomi non propri, nella solitudine in cui anche io le abbandonavo. Troppo delicate per giocarci, troppo belle per essere gettate via, nascoste d’estate nel tronco cavo della quercia in giardino, in villa, in paese, al sud, dove prima o poi tornerò nel mio guscio di legno. Se non ci sono già. Ho visto Max aprire gli occhi su di me.  Ma è stata solo una sensazione, una carezza sul cuore. Era giorno, finalmente la vita riprendeva per lasciare che almeno tutto quel silenzio pieno di suoni d’oltretomba e di lamenti, si dileguasse. Ha guardato l’orologio e ha ammesso, in un respiro ampio e vibrante, il dolore che dalla sera prima non l’aveva abbandonato e quello del giorno che veniva, e che si sarebbe sommato all’altro. L’ho aspettato in cucina, accanto alla caffettiera muta. Anche stavolta, Max ha scelto con cura tazzine e caffè. Perché Max compra diverse tostature e aromi. È un feticista del caffè e io, una maniaca dei pezzi unici. Per avere un servizio da sei di porcellane uniche e rare, ho mandato in frantumi sei servizi buoni. Le follie di Lola, come le chiamava Max per provocarmi, quando sperava che io cedessi e gli raccontassi per filo e per segno il piacere provato nel permettermi il lusso di un gesto spregevole, disapprovato, un’infrazione alle regole imposte e terribilmente giuste. Perché l’emozione di mandare in frantumi qualcosa di così prezioso, e solo per soddisfare un capriccio, è un lusso. Il dire –no, non li regalo-, no non li metto in una cassa giù in cantina e guardare Olimpia assottigliare gli occhi e metter su un ghigno di disapprovazione, è stato un lusso. Lasciare che soffrisse davanti a quello scempio, lei, che già non si muoveva più, che quasi non parlava, è stato un lusso. Perché ogni tazzina calpestata, ogni piattino delicato e fragile su cui passavo punta e tacco, erano uno strappo in più a quel lenzuolo stretto che mi cingeva da anni. Ogni suo tentativo di voltare la testa e abbassare lo sguardo davanti a quell’omicidio di piccoli capolavori artigianali, era la mia vendetta soddisfatta per i segni che ancora porto sulle braccia. Per il mio cuore indurito che per anni è servito solo a pompare sangue, inabile a provare piacere per le gioie semplici. O per una carezza. Facevano tutti parte della sua maledetta collezione, quei pezzi che ora stanno lì, in bella mostra nel mobile bar anni cinquanta. Il servizio di zia Luisa, conquistato da Olimpia a colpi di minacce e ricatti, quello azzurro cielo e madreperla appartenuto di Barbara, sua sorella, e che mia madre barattò con un misero funerale prendendo per il collo la famiglia, reduce da un tracollo finanziario. Gli altri servizi venivano da regali, regali che lei chiudeva a doppia mandata nel grande armadio in corridoio, il sancta sanctorum delle sue malefatte. E chissà se Olimpia, nella sua demenza da morfina, sa che Lola si è persa e non sa più tornare, né come andare via per sempre o da quale porta uscire. Forse ha annuito appena quando Max gliel’ha detto, subito dopo, però, deve aver sorriso, quando Max si è voltato. L’avrei voluta vedere listata a lutto come il giorno del funerale di papà, quando non poté fare a meno di venire accompagnata dal nuovo amante, un commerciante in tessuti del sud, un mezzo strozzino che andava a puttane e che ogni volta che rimaneva solo con me mi lanciava sguardi umidi e allungava la mano ossuta sul mio ginocchio in calzamaglia bianca. Olimpia piangeva, lì davanti a tutti, senza vergogna, come fosse normale portarsi l’amante e non tenere la mano a sua figlia. Come se fosse normale lasciarmi da sola in quella grande casa, quella notte stessa, io e la mia bambola davanti al grande camino acceso e la cena pronta nel forno, con Maria che non riusciva a tenere gli occhi aperti per quanto il pianto li aveva gonfiati. Quella notte lo sentii chiaramente passare e ripassare in corridoio, davanti alla mia stanza. Bussò anche, ne sono sicura, ma scelsi di pensare fosse il vento, la tramontana gelida che soffia da quelle parti a Febbraio, la stessa che aveva reso quel mattino luminoso, e chiarissimo il cielo sul suo corpo pallido e vestito a festa. Olimpia tornò all’alba che ero ancora sveglia. Allora non sbagliai a immaginare la morte come un continuo errare in cerca di un’uscita. Mi guardò appena mentre fingevo un sonno pesante rannicchiata sotto le coperte, e tornò ridendo sommessamente dal suo ospite che sicuramente la attendeva davanti al fuoco ormai spento con in mano un bicchiere di qualcosa. Sentii il gelo della morte perforarmi la carne per molti giorni ancora, forse per dei mesi, e per molte notti ancora tenni gli occhi al soffitto in cerca di un perché. Papà era uscito al mattino che sembrava proprio un giorno qualunque. Nella mia memoria è ancora lì, in piedi accanto alla vecchia cucina che sorseggia il caffè e mi guarda sopra la tazzina stringendo gli occhi, indeciso se sorridere alle mie trecce tirate alla meglio sulla testa o al gusto squisito del caffè di Maria che, soddisfatta, e con il grembiule tra le mani, lo guardava ogni giorno allo stesso modo, con affetto e compassione. Una rapina, dissero i due tizi in divisa che suonarono alla porta alle undici di sera. Nemmeno in quel momento tragico Olimpia si lasciò sfuggire l’occasione di farsi prendere tra le braccia da qualcuno, ma prima si strinse in vita la cintura di velluto viola dell’ampia vestaglia, per rendere la sua vita ancora più sottile, poi barcollò accostando la mano alla fronte e subito dopo allo stipite della porta. È stata una rapina, scrissero i giornalisti, uniti nel lutto alla famiglia in vista, al gioielliere più stimato in città. Che non fu così lo so solo oggi, e da poche ore. Che mio padre è stato giustiziato lo so da questo pomeriggio e che la vendetta ancora non è stata portata a termine, ora, è una certezza. Però l’ho sempre sospettato visto che dal quel giorno, e ogni notte, l’ho sentito passeggiare su e giù per il corridoio, come faceva quando stava inutilmente in attesa del ritorno di Olimpia o di uno squillo. È stata una rapina Lola, non puoi dare a me anche la responsabilità della morte di tuo padre. Me l’ha ripetuto ogni volta che per caso ci ritrovavamo al cimitero, lei carica di fiori da distribuire agli amanti che pretendeva fossero ancora suoi schiavi e che le dessero almeno numeri vincenti, io con un sottile fascio di lilium gialli.
Max, ha provato a cancellare dal viso l’amarezza sorridendo e facendo smorfie nello specchio mentre io lo guardavo seduta sulla vasca, come facevo tante volte. E anche stamattina avrei voluto che parlasse, che dicesse qualcosa, a me o a se stesso. Qualcuno dice che la parola interiore opprime, e arringare lo spazio vuoto è uno sfogo, che parlare da soli fa l’effetto di un dialogo con il dio che si ha dentro. Pare lo facesse Socrate, Lutero e anch’io. Lo diceva mio padre, ma forse l’aveva scritto Victor Hugo prima di lui. Ma Max non parla mai da solo. Lui parla con le sue carte e i fogli di calcolo bisbigliando cifre. Io discuto, domando e mi rispondo, e spesso trovo soluzioni impensate. Max è alla porta. Questa notte, perché la paura si dissolva, ti dirò della donna del palazzo di fronte e di mio padre, di quella notte e della mano armata che me l’ha portato via, lui e il suo dolore da pagliaccio. Adesso, voglio solo respirare un po’ di vita.


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