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Diario di LOLA, nono giorno, Olimpia

Da Bibolotty
Foto di Eugenio Recuenco
Diario di LOLA, nono giorno, Olimpia
Lalama indagherà sulla storia della donna. Non ha un cellulare ma dice che l’assistente può rintracciarlo sul cercapersone. Sì, io non ricordo nemmeno com’è fatto un cercapersone.
Sono giorni che non la vedo. Da quando ho incontrato Vince la donna del palazzo di fronte e scomparsa.
È che non riesco più a portare a termine una lettera che subito succede qualcos’altro, qualcosa di urgente e di più importante. Ho i minuti contati come se dovessi affrontare adesso tutti i mali del mondo e concludere ciò che ho lasciato in sospeso. E l’elenco è lungo.
Comunque, nemmeno Martina, la ragazza a servizio intero, mi saluta più.
Certo, è vero che sono stata in camera mia per tutto il giorno a riguardare alcune carte, ma a volte penso di essere invisibile.
Max ha cambiato di posto i lilium.
Li ha messi sotto una mia foto, quella scattata in barca a vela con la costa croata alle mie spalle mentre nuda, a parte un turbante azzurro in testa, ridevo versandomi qualcosa addosso.
Felici, per aver coinvolto due amici perbenisti e noiosi in un gioco piccante, festeggiavamo la partita persa e il pegno pagato davanti a loro.
Il pegno era forse tutto ciò che stai immaginando ma credo anche di più. Perché da quella volta a Firenze non c’era stato bisogno di suggerirgli più nulla, nemmeno di fare qualcosa che non gli andasse a genio perché Max misurasse con attenzione millimetrica i passi da fare.
Poi ci fu quella crociera a quattro e le mie nausee mattutine e la certezza –immediatamente tradita- che io potessi farlo padre.
In quella foto è ritratta la nostra ultima alba felice prima dell’ossessione e di quel volere sì, ma sino in fondo no.
È da allora, sì, è proprio da quel giorno che Max mi ha messa via per ripormi nel passato, tra la laurea e la morte di suo padre. Lola troppo importante perché sia del tutto rimossa ma abbastanza scomoda per dover restare in ombra. Chissà se nel suo ricordo mi ha lasciata vestita così, con il tailleur giallo ocra e i capelli raccolti alla meglio, il trucco sfatto e l’aria sfinita.
Non mi va di diventare madre, gli dissi evitando i suoi occhi e un barattolo di birra che da ore faceva la spola da un lato e l’altro della cambusa. Mi guardò a lungo prima di scostare con l’indice la lunga ciocca che mi copriva un occhio. Mi guardò ancora con attenzione prima di passarci sopra, a quella frase scomoda e sorridere un po’ alla ricerca di un appiglio per cambiare discorso. Disse infine un –poi vedremo- che rimase lì. Io salii in coperta fingendo entusiasmo con gli ospiti e il discorso si chiuse, il suo tocco diventò presto imparziale e poco saporito, come un gelato di surrogato alla vaniglia.
È bastato uno sforzo eccessivo per trasformare una gravidanza già difficile in un semplice ritardo. Poi sì, certo, quel bambino l’ho sognato per molto tempo e ancora è difficile per me guardarne uno senza sentirmi colpevole di non averci almeno provato, di essermi adagiata nel senso d’inadeguatezza, con lo sguardo sempre rivolto dentro me stessa e mai altrove, ancora alla ricerca di una strada come una ragazzina, anziché lasciarmi andare a un cammino anche un po’ casuale.
Max si trattiene in banca fino a tardi ed è possibile che abbia un’altra storia.
Se c’è posto per uno non c’è posto per l’altro, diceva mia madre quando moralisticheggiava davanti alle sue amiche per esibire un amore filiale letto al volo su qualche rivista femminile, sotto il casco, durante gli interminabili pomeriggi dove poi ondeggiando sapientemente fino a casa, faceva un po’ di self management.
Mi sembra di risentirla l’emozione di quell’ipotesi folle che si faceva spazio via via che la sentivo parlare, mi provocava eccitazione fisica l’idea di voltarmi garbatamente–nel mio abitino chiaro di pizzo - ed elencare alle amiche i nomi dei suoi numerosi e facoltosi amanti.
Perciò mio padre doveva incontrare certi tizi e mettersi in certi affari, doveva a tutti i costi –almeno di fronte a se stesso- sentirsi all’altezza di offrirle lo stesso prezzo.
In quegli anni ho imparato anche a leggere il labiale pur di capire come andava la storia. Li seguivo nascondendomi dietro gli immensi mobili ottocento di cui la nostra casa assolata era ingombra. Mimetizzata dietro le piante ornamentali che Olimpia, mia madre, curava più di noi e di se stessa, ascoltavo il ritmo sincopato di quel tipo di amore. Mi appiattivo, trattenendo il respiro, nei coni d’ombra del salone, tra il pianoforte e il tavolo da gioco, tra il divano e la libreria, e imparavo.
-Tu- sei- un –in-ca-pa-ce-sei-un-ver-me- era l’incipit che mia madre preferiva, tro-ia, sei-una-troia, il balbettio di mio padre o anche l’insulto conclusivo, quello che arrivava forte e chiaro dopo mille incisi sussurrati a mezza bocca o rabbioso e schiumante, come l’abbaiare di un cane cui la catena ha reciso le corde vocali.
Doveva avermi scambiata per Olimpia quando il suo braccio rassegnato alla morte si allungò fino a me. Era un pomeriggio autunnale prossimo al lutto quello in cui si passò tra le dita giallastre le mie ciocche lunghe e schiarite dall’estate; voleva guardarle per esser certo di poterle trovare tra tutte -tante volte si fosse risvegliato-, per non confonderle tra le altre ciocche bionde senza volto né nome, che abitano nell’infinito passato.
Olimpia, non potevano dare altro nome a quella lì.
Diventerai alta più di lei, mi diceva mentre ballavamo un lento e io che non gli arrivavo nemmeno alla spalla. Diventerai anche più bella di lei, mi diceva sotto una luce calda che era sicuramente tramonto, e che sapeva di una serata di giochi a carte tra me, lui e tutta l’amarezza di quell’assenza.
Olimpia, ti prego, anche stasera no, le diceva in quelle serate che erano la conclusione di una settimana di stress e di chiacchiere che sentiva su di lei, di sussurri nel bar e alla sede del partito.
Ti prego e mille volte ti prego le diceva mentre la seguiva avanti e indietro tra il bagno e la camera da letto.
Lei cantava sempre qualcosa in quei momenti, forse cantava per contraddire la drammaticità del momento, perché se qualcuno fosse entrato in quell’istante, avrebbe pensato che il pazzo era lui, forse cantava quel tanto che serviva a coprire il fastidioso balbettio di mio padre, che dopo la resa la guardava senza dire più niente dalla poltrona rosso sbiadito.
Lo vedi? Io non ho mai conosciuto l’amore della noia o quello dell’abbondanza, nemmeno quello pago e tiepido, molle e insapore, ho conosciuto solo la notte che incombe carica di accuse e pianti che per me erano amore.
Quello il marchio ricevuto, quel dolore è il mio maestro, non il piacere della serenità diffusa, non un sonnolento bacio della buonanotte e il sottinteso “a domani”.
Max ha smesso di strofinarmi le caviglie e di salire più su; ha rimandato al giorno dopo e poi all’altro ancora, forse. Mi ha affibbiato generici e impersonali nomignoli e poi ha dimenticato il mio nome o forse l’ha depennato, prima, con la precisione del ragioniere e la cura del bancario.
Qui in casa silenzi si sono fatti ingombranti.
Arriva il momento in cui si piange di nascosto, magari nel bagno, i palmi delle mani ben assicurati al bordo del lavandino che ci auguriamo crolli sotto quel dolore e che con lui possa crollare anche il pavimento –le mattonelle, quelle bianche e nere anni settanta scelte assieme a lui-, e anche il palazzo, se possibile, sulla strada, un piano sull’altro e senza far troppo rumore.
E io lo sento il pianto quando si trattiene fino all’ultimo, fino a un mio –scusami non ci avevo pensato-, al suo –mi spiace non l’ho fatto apposta- che mi blocca il respiro e rimbomba nella testa.
Restiamo nella recita come attori costretti da anni in un costume di cui vedono solo i difetti: il tessuto sintetico, la lampo pesante, il colore sbagliato.
Anche io ho rimandato e poi mi sono accontentata parole che vanno via con un clic -o molti clic-, emozioni che svaporano in un “ho pensato a te”, in un “a domani, ciao”. E così il tempo che ci stava a guardare è andato avanti non curandosi di noi, come se l’eterno domani spettasse anche a noi, come se anche io e Max avessimo un’opportunità ancora, da qualche parte. E invece, forse, quella ci è già stata data tanto tempo fa.
Non c’erano più nodi da sciogliere, le corde sparite da tempo, da quell’estate in barca, da quell’alba ancora per poco trasgressiva e maledettamente magica.
Poi si è fatto buio e non ho visto più la strada, e mi sono ritrovata in un tempo fermo, senza né inizio né fine, senza rumore, alla ricerca di una donna che nessuno vede e di Lola, a cui non resta che parlare a uno sconosciuto, a uno che non conosco quasi.
Tu che mi domandi di raccontare e di dirti di me, delle mie fantasie, delle cose più belle che ho visto, dello zucchero filato, della neve imbevuta di sciroppo di amarene che mangiavo dalla mano di mio padre, dei cuccioli di cane che nascevano in estate sotto la luna piena, della luna piena, del tempo inutile della mia infanzia, dei gelsi e dell’altalena. Lo spazio è occupato sempre più dal passato, da veri abbracci e autentici commiati, da una connessione con l’altro sempre commossa. Il mio presente, invece, è freddo e inodore, è uno schermo piatto dove, a immaginare il dolore, ho perso la capacità di viverlo.
Ti sembrerà assurdo, ma io sono stata felice, ed è solo per questo che sono ancora qui.

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