Diario di LOLA, quarto giorno. L'abito rosso

Da Bibolotty
Foto di Eugenio Recuenco
Mia suocera ha deciso gli addobbi, l’albero l’ho scelto io, sono andata in un vivaio che li affitta. L’idea di sradicare una vita mi fa inorridire, è come se qualcuno svegliasse in piena notte per infilarmi in un carro merci e spedirmi al confino.
Max mi ha comprato un abito rosso intonato alla tovaglia. Non gli chiederò nemmeno di tirarmi su la lampo, conosco la rapidità con cui farà quel gesto, non voglio rimanere scottata dal gelo delle sue dita.
Si è tagliato i capelli, li ha rasati un po’, lasciandoli più lunghi davanti. Stamattina ho provato a passargli le dita tra la lunga ciocca bruna e si è scostato, poi mi ha sorriso come per scusarsi ed è tornato al computer.
Neanche questa settimana ha declinato gli inviti dei colleghi e ha presenziato a ogni maledetto party aziendale: festeggiano il crollo delle borse o forse, per scongiurarlo, praticano sacrifici umani.
Una volta la moglie di un suo collega mi aveva urlato dalla cabina del solarium che lei ha sempre partecipato alle feste ai piani alti. Max me lo ha detto centinaia di volte, le risposi io alzando gli occhi da un settimanale femminile, poi mi sono domandata perché andare oltre in quella menzogna improvvisata e così ho troncato il discorso a metà, lasciando che quella “e” in sovracuto si disperdesse tra i vapori e i phon.
Max non mi ci ha mai portata.
Le ho già scelte le scarpe per te, le ho già ordinate. Sono di cuoio chiaro, s’intonano ai jeans che porti così spesso e al soprabito di pelle un po’ agée con cui ti ho visto entrare in redazione solo due giorni fa.
No, non ti seguo, lo giuro, è solo che mi piace immaginarti da qualche parte, sapere dove prendi il caffè, dove pranzi e con chi, a che ora esci e entri al giornale.
Ho incontrato tua moglie dall’estetista.
Mi veniva da ridere a vederla affannarsi con le maschere e la depilazione: vuol fare baldoria la notte di Capodanno.
Secondo me farai meglio a sbronzarti.
Così da darle solo un tiepido bacio e fingerti stanco.
Così penserai a me se proprio ti costringerà a toccarla, dimenandosi sul letto e mettendo in fila vecchi trucchi e le solite moine.
Mia suocera e il suo profumo di vetiver hanno anche deciso il regalo che avrei fatto a Max. Una delle più moderne appendici maschili, un super ultimo portatile che gli ricorderà anche di che pasta è fatto.
Io non lo so. Non lo so più.
Lo incontrai in Piazza Duomo dieci anni fa, circa, rincorreva il mio cappello che per una folata di vento improvviso si era alzato dalla sedia per rotolare via.
Piacere, Lola, e grazie, gli dissi come sempre tenendo gli occhi bassi, in un imbarazzo che viene scambiato per timidezza ma che è solo spirito di conservazione e difesa personale.
Da lì non ci siamo mai più lasciati.
A lui andava bene che io dicessi di sì a tutto e io amavo il suo essere distante e così preso dal lavoro.
Tua moglie l’ho incontrata anche dal fioraio.
Lo so che abito proprio dalla parte opposta, ma è proprio lì che mi servo. Solo lì trovo sempre i lilium gialli.
È lui che me li ha destinati lo so, ma sono io che devo sceglierli e poi scartarli e infilarli nel vaso.
Sono io che compro ogni cosa.
Un giorno mi domandò di comprare della corda. Voleva venti metri di corda e un paio di cesoie.
Passai tutta la notte a ipotizzare in che modo mi avrebbe fatto morire di piacere.
Quando mi disse che voleva andare in villa e mi domandò di accompagnarlo, pensai che la sapeva lunga il mio Max , e che quello era il posto più giusto, distante dalla strada e dall’abitato, a un passo dal mare in tempesta.
Non so perché ma quella grande sull’Aurelia la tengono sempre chiusa. È un posto che mi dà i brividi.
La prima volta che ci entrai c’erano ancora i teli bianchi sui mobili e i tarli banchettavano da almeno un paio d’anni lasciando ovunque i resti del loro pasto.
Mi bendò gli occhi quel mattino. Forse fu per un film che aveva visto perché poi non lo fece più, e invece di bendarmi, decise di spegnere la luce e il mondo attorno, e tutto quel senso di affidamento che avrei voluto sentire finì in un tombino, come le foglie giù in strada spazzate via dal vento e da passi frettolosi e vaghi.
Quando entrai, la corda pesante mi segava il palmo della mano.
Dammela!, fece lui, e ci passò il braccio dentro e la poggiò sulla spalla.
Così si fa, pensai, fiera di quel pezzo di carne così virile.
Mi chiese di restare lì all’ingresso e che doveva prima prendere una scala.
Quando lo sentii chiamare uno del posto, un tizio che di tanto in tanto andava a fare le potature e a pulire i grande giardino e il viale di ghiaia, pensai che Max aveva superato se stesso.
Mi ferii al mano quella sera stessa, a cena.
Trovai che quel taglio profondo al centro della mano fosse la giusta punizione per quelle idee imbecilli che mi erano passate per la testa: Max doveva rafforzare alcune travi in solaio e quella corda non serviva a mettere insieme un bel gioco a due.
L’abito rosso è disteso sul letto accanto a me.
Da qui vedo uno spesso mazzetto di pezzi da cento sotto una pietra che Max usa come fermacarte.
Sollevo e metto giù il cellulare un paio di volte.
A un certo punto, anche tu spegnerai la luce per voltarti dall’altra parte.

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