La settimana è cominciata bene.
Stamattina, Max ha lasciato che gli lucidassi le scarpe.
Sono fatte a mano, un regalo di un Natale di alcuni anni fa, forse sette. Gliele comprai in cambio di uno splendido diamante. Quello lo tiene in banca però.
Ho una settimana piena d’impegni davanti a me. Devo accompagnare mia suocera dal podologo, dal dentista, dal medico e a fare spese per il cenone. A me toccheranno gli inviti per capodanno.
Una casa così grande non può risuonare solo dei nostri pensieri, del ticchettio della sua tastiera e delle suonerie dei cellulari.
Stamattina mi ha presa per la vita mentre stavo di spalle, in cucina, a badare al caffè.
Si è avvicinato in silenzio e ho soltanto sentito le sue dita spostarmi i capelli da un lato, le labbra sfiorarmi appena la nuca e la sua voce domandarmi se mi dispiaceva farlo. Lucidargli le scarpe intendo.
Mi chiede sempre il permesso per ogni cosa, e lo fa con gentilezza. Sempre. In ogni occasione, anche quando non dovrebbe.
Adesso sento solo il respiro monotono della lavastoviglie, e la pendola che divora gli attimi.
Il resto non esiste.
In certi momenti mi domando se c’è veramente un mondo lì fuori o se non sia piuttosto una mia proiezione, e che io mi trovo altrove, magari di là dall’oceano e sto solo sognando. In certi momenti mi domando anche perché ho fatto certe scelte, ma non mi lascio mai il tempo di rispondere.
Riconoscere di voler vivere senza responsabilità non è ammissibile oggi per una donna, eppure è così.
Per liberarmi da questo silenzio provo a fare il tuo numero una ventina di volte senza mai lasciare che squilli, spero che prima o poi, dallo spazio buio della rete, possa sentire la tua voce dire il mio nome prima che io riattacchi.
Non voglio vederti.
Voglio lasciare la nostra storia in naftalina, nel cassetto più nascosto del mio armadio, quello in fondo, dove tengo arrotolata la mia laurea in medicina, il passaporto e la pistola di mio padre.
Lo so che non potrei tenerla ma tanto è scarica.
È una Smith & Wesson a tamburo, la teneva per difesa personale da quando avevano cercato di rapinarlo. Mio padre faceva il rappresentante di pietre preziose ma credo trafficasse anche in altro, viste le proprietà che mi ha lasciato: è solo frutto del suo lavoro, mi disse mamma prima di decidere -dopo quella mia crudele illazione- di togliermi per sempre amore e saluto.
Forse è da allora che mi sono imposta di non pensare più né di fare ipotesi.
Si sarà rivoltato nella tomba!, aveva anche urlato sbattendo la porta.
E da quel giorno il pensiero di papà a faccia in giù nella bara mi torna di continuo alla mente: ogni volta che ripenso ai bisbigli che provenivano dal suo studio o al telefono che riagganciava in fretta quando mi sentiva entrare, all’uomo che talvolta incontrava in un bar del centro dopo avermi lasciata in auto, in doppia fila.
Me lo ricordo bene quel tizio.
Aveva la mascella larga e così le spalle, era robusto e molto più alto di lui, profonde occhiaie e uno sguardo che se ne andava in giro anziché ascoltarlo. Lo so perché un giorno l’avevo seguito, mal interpretando poi una bugia mentre papà mi spingeva in malo modo fuori dal bar, gesticolando qualcosa al tizio che era rimasto in piedi al bancone con la sigaretta tra le labbra.
Chissà quanto tempo passerà prima che Max mi domandi di lucidargli ancora le scarpe. Anche la sua, in fondo, è una divisa.
Chissà se un giorno mi domanderà di farlo stando in ginocchio, di pulirgliele a fondo, magari con la lingua.
Anche la lavastoviglie adesso tace.
Accendo un incenso e aspetto di vedere il sole scomparire dietro il palazzo di fronte. Lì ci abita una vecchia che tutte le mattine ride e annuisce, lo fa guardando me, ne sono certa. Non so proprio chi sia -anche se non mi sono mai spinta a fare una ricerca vera e propria- ma comunque non l’ho mai incontrata al supermercato né in panetteria, qui all’angolo.
Aspetto che di me alla finestra e dei lilium al centro del salotto, non rimanga che la sagoma scura, poi proverò a fare di nuovo il tuo numero.
Ti spedirò un paio di scarpe fatte a mano.
Dopo Natale, per il nuovo anno.
Porti il quarantuno, me l’hai scritto a proposito del fatto che non trovi mai quella calza a pennello.
Prima, forse, dovrei misurateli bene i piedi mentre tu mi guardi dall’alto: dovresti lasciarmelo fare per tutto il tempo che occorre, fosse anche per l’eternità.
Anche davanti all’uomo che parlava con mio padre avrei voluto mettermi in ginocchio. Ci gioco spesso nella mente mentre Max dorme, dopo che una doccia con idromassaggio lo ha rilassato, dopo che le mie carezze, separate dalla sua pelle solo dall’asciugamano, lo hanno rassicurato di essere ancora in vita, di essere ancora un essere umano nonostante tre prestiti rifiutati e quattro assegni mandati in protesto.
Penso che sarebbe un’ottima ragione, questa, per fargli saltare la testa, penso, ma poi vedo mio padre a faccia in giù nella bara foderata di bianco, tra i fiori sbriciolati, ormai solo ossa nel suo abito scuro. Allora smetto di pensare e accendo la tivvù.
Max tra un’ora sarà qui.