Quando ho conseguito l’attestato di Grafico Pubblicitario/Assistente Art Director non avrei mai immaginato che da lì a 6 mesi avrei iniziato a lavorare per grossi brand automobilistici. Speravo di farmi valere nel mondo dell’Atl, ma mi sono ritrovato, direi anche fortunatamente, catapultato in quello del Btl. Sono entrato nella pubblicità insieme alla crisi economica, che culo! Credevo che i grossi brand mi avrebbero dato l’opportunità di esprimere al meglio le mie capacità, ma a due anni di distanza posso confermare che spesso sono proprio loro a reprimerti, attaccando quei pochi guizzi che ti rendono orgoglioso di appartenere alla categoria dei pubblicitari.
Circa un mese fa, abbiamo iniziato a lavorare ad un direct marketing per uno dei brand automotive italiani più prestigiosi. 250 card perlescenti (su cui sembra caduto un flacone di brillantina per sbaglio) da spedire in omaggio a chi acquisterà l’ultimo gioiellino ispirato al mondo race. Abbiamo progettato un quartino da inserire in un pack plastificato soft-touch impreziosendolo con un platorello in argento.
Come sempre non abbiamo immagini, né testi, né il logo di prodotto, figuriamoci il brief. E se parlo un altro po’ mi tolgono pure il computer. Non ci demoralizziamo e facciamo una chart sommaria della comunicazione. Si va in presentazione, al ritorno il direttore clienti è afflitto. Ha chiesto al cliente una serie di dettagli per ottimizzare il piano di marketing ma non è riuscito ad ottenerli, evidentemente hanno difficoltà a reperirli sul piano internazionale mettendoci in difficoltà a comunicare i premi. Dice: “Ho dovuto mediare per non buttare nel cestino tutto il lavoro dei mesi precedenti”. Per una volta provo compassione per gli ambasciatori. Il debriefing tarda ad arrivare, ma in compenso arrivano le immagini dalla casa madre, il logo prodotto siamo costretti a ricrearlo. Gli scatti sono di buon livello, quindi ci lanciamo ad impaginare un tre ante orizzontale e con un po' di abnegazione preparo anche un folderino per dare un po’ più di corpo al progetto. Il mio responsabile che si definisce un copy di 4° categoria, ma che di testi commerciali in 20 anni di attività ne hai visti, mette giù 6 capitoletti che spiegano in maniera poco brillante ma lineare i vantaggi dell’acquisto facendo ruotare le bodycopy su un paio di aggettivi che evidenziano l’esclusività del brand. Ci sembra un buon prodotto. Probabilmente non vinceremo il prossimo festival del design, però quest’ultimo release ci sembra all’altezza delle aspettative del cliente. Poveri ingenui! Infatti all'ufficio acquisti s'è insediata una new entry che ha incominciato a dettare legge. Se noi avevamo progettato la comunicazione partendo dal pack, adesso tutto è ribaltato. Ci dicono che non vogliono fare il folder, probabilmente lo reputano troppo costoso. Si passa ad un quartino, le misure ce le impongono loro anche se le immagini non s'adattano manco per il cazzo. Ne ignoriamo la logica. Dal formato orizzontale si passa a quello verticale. Tutto da rifare. Bisogna reimpostare la fustella. Togli due millimetri di qua, aggiungi due centimetri di là. E ad ogni mail i conati di vomito si moltiplicano. Controllo e ricontrollo come un malatodimente per non perdermi i millimetri, perché durante queste 4 settimane per un lavoro da 1 giorno il formato è cambiato almeno 4 volte. Controllo pantone, indirizzo, sito, sito prodotto, argento a caldo e che tutto sia impeccabile. Non voglio lasciare le forbici dentro l’addome, anche se non mi pace fare taglia e cuci. Faccio gli esecutivi per sopravvivere come un anfibio. Arrivano nuove mail. Per il biglietto di comunicazione non gli piace il GSK, vogliono una carta più opaca. Ci dicono che i testi dovrebbero essere più life style, bah. Il mio responsabile si arrende e contatta un copy di 1° categoria, un Ex direttore creativo LB. Così ci mettiamo il ferro dietro la porta. Ad un paio di righe più intuitive ne seguono alcune meno ispirate. Tuttavia funziona. Lo giriamo al cliente che rettifica con un altro testo redatto da non so chi. Sicuramente non sa usare le virgole e la stesura è di una ridondanza sconfortante. Grondano parentetiche che non aggiungono nulla. Mi viene quasi da ridere. Mi rincuora appurare che anche chi ha vinto qualche Leone a Cannes è stato bocciato tanto quanto me che muovo i miei passi da soli 2 anni. Mal comune, mezzo gaudio. Lo rimpagino a blocchetto tenendo sottocchio le tabulazioni.
È in questi momenti che ricordo un aneddoto che mi ha raccontato una volta mio cugino. Una combriccola di amici si ritrova in pizzeria. Uno di loro inizia a personalizzarsi la pizza scegliendo tra i condimenti più disparati e discrepanti. Parte la commessa e in men che non si dica arriva il pizzaiolo furibondo: “Posso sapere chi ha ordinato ‘sta pizza? IO sono un pizzaiolo serio! Queste schifezze non le faccio.” Ecco, a volte mi verrebbe da contattare personalmente i clienti ed esprimere lo stesso concetto. La verità è che siamo tutti schiavi dei soldi. Ognuno è sotto ricatto. L’amministratore deve mantenere l’azienda, il responsabile deve pagare il mutuo, il creativo deve onorare l’affitto. A volte mi verrebbe da dire MACHISENEFREGA, vorrei mollare tutto per andare a fare il pasticciere. Ché almeno lì puoi pasticciare con colori, odori, sapori e se fa cagare davvero si sente, non la puoi spacciare per cioccolata.