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Quando ho ripreso conoscenza il pullman era fermo ai margini di una strada sterrata. Cosa avessi sognato non sapevo dire. Intuivo che probabilmente avevo dormito per lo stordimento causato dal pomeriggio, certamente c'era la partecipazione senza discernimento tipica della notte, e in quel buio c'erano un organo e spazi accesi dai ceri; ricordavo me stessa cantare e poi le luci che si sono sciolte in un paesaggio: c'era una casa e una sensazione di paura irrimediabile che montava stanze e corridoi, gli arredamenti, i mobili e le suppellettili contraffatte da un chiarore sinistro. Cosa facevo là, cosa si sarebbe consumato? A piedi nudi avevo varcato la soglia e la stanza era vuota e viva, e si preparava. Io ero dentro quella luce cieca e osservavo nel profondo della mia persona il torrente sanguigno liquefarsi laddove tessuti molli e duri combaciano nel fisico interno senza che lo si sappia, come una doccia ossea, e interrogavo la mia materia nera, quella normalmente invisibile, per capire qualcosa di quel sogno. E il mio invisibile rispondeva, gli organi si erano fatti teneri e luminosi, i tessuti sottili, le cose abbigliate di un velo sempre più ineffabile, sempre più trasparente, come le moderne lenti proteiche. Ma poi ero rimasta ferita da una macchia rossa, una chiazza incendiaria aveva divorato manifestazione e ricordo prima che maturasse un'impressione e, nella pratica, mi ero svegliata col sole negli occhi.
2. le pesche Come dicevo il pullman era fermo per una pausa in una strada imprecisata vicino Paganico. La campagna senza misura raggiava le sue foglie appena nate, il terreno secco, la polvere calcinosa e il volo degli storni. Barcollammo fuori. Un uomo sedeva accanto a due o tre cassette di frutta. Sulla sua testa sventagliava un telo di plastica come una cupola o il tetto di un miracoloso negozio nomade. Ardesio sedeva negli spazi maremmani e ogni tanto portava alla bocca, pensai per saggiarla, la peluria delle sue pesche. C'era profumo. Arrivava un profumo liquido ricco di luce e cose mature, e quei volti piccoli, quelle piccole pesche intatte con quale freschezza con quale peso pieno d'acqua ondeggiavano fra le sue dita da fachiro o da masturbatore! Oh, io dovevo avere le pesche, dovevo sapere di cosa sapessero a tutti i costi, perché non era un caso che il pullman si fosse fermato alle pendici di quella campagna, ai margini di un sogno in aborto, alla radice di una sensazione di grazia assurda, di una via attingibile al tramonto e alla penetrazione delle cose; tutto ciò non era un caso, tutto non era successo se non per farmi partecipe – di cosa? 3. Siena Non sono mai stata a mio agio fra le cose che fioriscono e nella loro deflagrazione rivelano un ordine del mondo. Semplicemente perché mi sembra più felice il disordine, più universale il caos, più armoniosa la mescolanza. Allo stesso tempo, però, sono la persona più timida che esista: ogni minima esplosione di vita o di bellezza, se appena mi sfiora, risucchia la mia esuberanza e mi schiaccia. Per questo sono passata per Siena come un animale selvatico. Piazza del Campo, il Duomo, la libreria Piccolomini, la Pinacoteca Nazionale, l'Accademia Chigiana. Tutto, tutto mi è scivolato addosso con un imbarazzo soverchiante. Come una pittura sbiadita, o come un cencio, mi sono lasciata spingere per le strade dai sinici, i nipponici e gli svedesi in visita turistica. Ho lasciato che mi pigiassero lungo i muri e gli spazi di maggior interesse, che scattassero foto sopra il mio corpo, dritto su quel popolo di santi, quella colonia di mosaici, quella granaglia di tetti come un sacco di semi schiacciati. Mi sono dimenticata di mangiare e di bere, alla fine del pomeriggio non ricordavo nulla, avevo un gran tremito nelle ossa, i muscoli doloranti e un vuoto denso, come una sensazione di grasso e di rallentamento in tutti i minimi organi della mente. E di sconfitta.
4. il treno Il pullman ci ha deposti davanti alla stazione Santa Maria Novella. Alle dieci e mezza di sera c'è il mio treno, che è anche l'ultimo che da Firenze arriva a Viareggio. Quando si parte nel vagone accendono le luci, le persone smettono di parlare e qualcuna si addormenta. Un uomo siede con la compostezza degli anziani. Ha lo sguardo e mani grandi, odora di cipolla, e la pelle non è perfettamente opaca, come qualcosa di non finito. Mi viene spontaneo parlare. Vuole una pesca, chiedo, e ne tiro fuori una dal sacchetto. L'uomo alza quasi le mani, come per difendersi o scusarsi, e pur rifiutando non riesce nemmeno a dire di no. Il paesaggio è inarrivabile a quest'ora, il buio ha avvolto tutto e si lascia bucare soltanto e per poco dai lampioni. I fanali delle auto arrivano deformi per la velocità del treno e l'improntitudine dell'occhio nel registrare informazioni in sequenza, che a quest'ora non ha senso. La pesca ha una consistenza carnea ma molto più soddisfacente. La polpa, che dev'essere bianca, cede giusto la resistenza all'affondo ed eccita la masticazione, il succo è copioso, il nocciolo vellutato. L'uomo anziano e seduto adesso è ai margini del mio sguardo e armeggia nei pantaloni. Mi porge una caramella, come per difendersi o scusarsi mi dice: ecco, prenda, la mangi dopo, e dopo che l'ha detto il treno si ferma e se ne va. Io resto seduta, lascio la caramella luccicare sotto le lampade allungate e fredde, so già che non la mangerò, e che per un senso di gratitudine leggero e infinito la lascerò lì, sono certa che tutto questo voglia dire qualcosa – ma cosa, a parte una sensazione di naufragio?
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