Sottotitolo: come sopravvivere al passaggio Londra-Roma senza benzodiazepine.
Insomma, è finita. Ciao casette di mattoni inglesi, benvenuti palazzoni di cemento italiani.
Oops, i did it again: ho rimesso di nuovo la vita in valigie e scatoloni come faccio da ormai quattro anni a intervalli regolari, e sono tornata in Italia. Ho pianto un po’ ma meno di quanto credessi, un po’ perché di piangere ormai ho perso la voglia e un po’ perché a casa ci volevo tornare, altrimenti sarei rimasta dov’ero. Ho la convinzione che le persone che mi conoscono pensino che io sia completamente pazza e anche completamente cretina, una che si stufa facilmente della vita che ha e la cambia, che scappa sempre per non dover affrontare delle cose. Io, invece, tutto quello che faccio lo faccio per la ragione opposta.
Insomma, è finita davvero, con tutta la famiglia Black che bussa alla mia porta alle sette di sera, quando la mia camera è ancora un macello anche se otto ore dopo devo partire per andare in aeroporto. Mi riduco sempre così: inizio a preparare tutto settimane prima ma fino all’ultimo minuto sono lì che apro e chiudo le valigie. Sarah ha in mano un biglietto di ringraziamento, Lauren un pacchettino. “Denise, ti abbiamo regalato degli smalti” mi dice, e la madre le sussurra che non deve dire il contenuto del pacchetto prima che la persona lo apra. Ci sono dentro due smalti di Dior e io, anche se faccio finta di essere diventata una donna vera, non ce li ho avuti mai. Penso di rivenderli su ebay per alzare qualche euro che mi servirà per mangiare, poi me ne frego e li apro, li annuso, li provo sulle mie unghie e accidenti, mi sento JLaw alla notte degli Oscar. I bambini mi ringraziano, i genitori mi abbracciano. Li saluto, chiudo la porta e mi emoziono. Mi siedo sul letto e fisso il caminetto che non ho mai accesso, la scrivania senza niente sopra, il muro senza le foto e mi sembra tutto così strano. Mi ritrovo sempre in una camera vuota, a un certo punto, e non mi piace per niente. Ho nella testa troppe domande: è la scelta giusta? Come farò ad arrivare in aeroporto sana e salva? Le persone della mia vita saranno felici di rivedermi? Vorrei calmarmi ma non ci riesco, mi metto una pasticchetta di Valeriana dispert sotto la lingua ma è come se fosse acqua fresca. Non chiudo occhio. Devo ricominciare, ancora, di nuovo. Se solo fosse giorno sparerei la playlist Run Denai Run su spotify, quella con un sacco di canzoni zarre che mi aiutano quando troppi pensieri frullano nella mia testa e mi sembra che l’unica via d’uscita sia sculettare e urlare parole a caso. Neanche a dirlo, mi addormento mezz’ora prima di dovermi svegliare. Scrivo un biglietto in cui dico di non essere molto brava a parlare ma provo anche io dei sentimenti, li ringrazio per essere stati la mia famiglia per sei mesi, è stata dura, a volte, ma alla fine non rimpiango niente. “Scrivo invece di parlare, e sapete, adesso è il mio lavoro”, mi sembra così strano. Firmo, disegno un cuoricino, apro la porta e me ne vado. Ciao Londra, grazie di tutto, sei stata buonissima con me.
Ero pronta a ricominciare a sentire le persone intorno a me parlare di nuovo la mia lingua, a guidare di nuovo dalla parte giusta, al caos che creiamo noi italiani quando dobbiamo metterci in fila e al 3G della Wind che non prende mai. E invece, nonostante i lunghi preparativi e il training autogeno su youtube, ho continuato a dire “sorry” invece che “scusi”, ho attraversato la strada guardando dalla parte sbagliata rischiando di essere investita e siccome non vivo in una rom-com sicuramente nessun bonaccione barbuto e tatuato mi avrebbe rialzata chiedendomi poi di andare a mangiare un veggie burger insieme, mi sono incazzata quando sulle scale mobili non si sono messi tutti sulla destra lasciandomi lo spazio per passare e ho provato ad aprire facebook per dire heeeeey sono tornaaataaaa come se a qualcuno potesse davvero interessare, ma mi è esploso l’iphone in mano mostrandomi il dito medio sulla schermata. Non esagerare Denai, vacci piano.
Essere ospite può essere molto divertente all’inizio, la sensazione di essere una vagabonda ti fa sentire una rockstar in tour, dopo un po’ però capisci che vorresti solo essere lasciata in pace e che la solitudine non è affatto male. Ospite dai nonni, ospite dagli zii, ospite dagli amici, vorresti un armadio e un letto e mettere tutte le tue cose in un posto più comodo di una valigia o di uno scatolone. Stare nella città in cui sono nata mi fa stare male e non lo nascondo, mi rende nervosa, mi fa contare le ore che mi separano alla nuova partenza. Per fortuna ne mancano poche. Rispondo male a tutti, devo sdraiarmi sul letto e respirare profondamente molto più spesso di quanto debba farlo in altre città, ho il fiato corto e mi mangio le unghie più che mai. Nel luogo che, almeno sulla carta, è “casa mia”, ci ho passato solo un’ora. Ho messo la chiave nella serratura e quando sono entrata mi è sembrato di non essere mai andata via. Scesa in camera mia un odore di muffa e chiuso mi ha presa a schiaffi in faccia, e di nuovo, come pochi giorni prima, mi sono seduta e ho visto il vuoto intorno a me. Un luogo disabitato, con le ragnatele ai muri, mi sono sentita vuota anche io come non mi sentivo da tempo. Sono tornata dai miei nonni dove almeno la camera profuma di persone. Mi sono ricordata che mia nonna ha una piantina di lavanda sul balcone, che è la mia pianta preferita. Ho avuto un periodo di dipendenza da lavanda piuttosto lungo: detersivo per la lavatrice, detersivo per i pavimenti, deodorante, profumo, bagnoschiuma. Ho annusato quella piantina di lavanda e mangiato una foglia di basilico. I miei nonni vivono nelle case popolari, in uno di quei palazzoni grigi e tristi che mio padre chiamava “formicai”. Vivono al quinto piano e io non posso mai affacciarmi alla finestra perché le vertigini mi fanno subito venire da vomitare. Nel palazzo ci sono persone anziane dell’età dei miei nonni che mi osservano da anni scuotendo la testa come se fossi il diavolo in persona, adesso più che mai, persone che le case le hanno occupate e che tengono la musica alta fino all’una di notte, cani che abbaiano e che pisciano sul portone e in ascensore la puzza ti uccide. Ma c’è una grande dignità negli occhi dei miei nonni, e a me la loro casa piace. Nella camera in cui dormo ci sono i mobili che ci sono da quando ho memoria, il divano sul quale io e mio cugino saltavamo e una volta abbiamo spaccato due doghe e per mesi ci siamo beccati le ramanzine, c’è al muro la foto della mia faccia di bambina con la frangetta tagliata tutta storta e il mio viso ricoperto di lentiggini, i miei capelli del mio colore naturale che se non avessi delle foto nemmeno me li ricorderei. Sono a Vigne Nuove, e nel caso in cui una mattina mi svegliassi dimenticandomi dove sono, visto che sono stata in quattro città diverse in cinque giorni, ci pensano le scritte sul muro a ricordarmelo.
Tutto è cambiato da quando da piccola giocavo nel giardino condominiale: dove c’erano le rose adesso ci sono solo erbacce secche, i bambini con i quali condividevo le ore pomeridiane giocando a campana adesso hanno ricoperto le mura di scritte d’amore e odio, la palestra che per anni è stato il luogo dove andavamo a fare le capriole sui tappeti da judo adesso è chiusa e ha le porte sprangate, l’insegna è ancora lì come cimelio vintage di quello che siamo stati e non saremo più. Era tutto così anche sei mesi fa, ma ci avevo fatto meno caso. Sarà che quando te ne vai poi fai caso a tutto, sarà che dove stavo fino a una settimana fa queste cose non le vedevo. Sembra il set di American Horror Story Asylum, e io non ho mai visto nemmeno mezza puntata perché mi spaventa a morte, è per questo che mentre cammino per il corridoio per scattare una foto ho i brividi.
Mio nonno mi fa sentire un principessa, mia nonna mi fa sentire un disturbo. Non fa niente, sono solo di passaggio. Forse non vi sono mancata tanto quanto voi siete mancati a me ma non è importante.
Lascio Roma e prendo un treno che mi riporta ancora di più alla realtà, quella della provincia che ho vissuto per anni: la stazione di Zagarolo è addirittura peggio di quella di Guidonia, prendo la valigia e la trascino su per le scale senza che nessuno mi dia una mano. Stronza io che pensavo di trovare un ascensore, ma cosa credi Denai, di essere ancora nella civile Inghilterra? A Roma piove così tanto che mezza città è allagata, Marino ha chiuso preventivamente le scuole, stesso destino hanno avuto alcune fermate della metropolitana, per una volta mi sembra di essere addirittura fortunata a essere dovuta forzatamente spostarmi un po’ più su, qui dove tra qualche tempo arriverà già la neve.
Domenica me ne vado di nuovo. “Telefona” “torna spesso” “fatti vedere ogni tanto”, sì, certo, ma giusto quel tanto che basta perché una settimana è stata già abbastanza dura. Milano io te lo prometto che poi per un po’ non mi muoverò, che ti coccolerò come non faccio da tempo, che andrò al supermercato e dirò sacchetto con la e aperta e grana. Ciao karma, mi hai fatto trovare il lavoro che volevo, mi hai dato la possibilità di tornare nella città che amo senza la preoccupazione di dover stare troppo tempo senza niente da fare, mi hai fatto dimenticare le paranoie che mi bloccavano il cervello quando mi preoccupavo di dover lasciare due lavori e un tetto sulla testa senza sapere se a casa avrei trovato lo stesso, a me sta bene non avere tempo, sta bene non riposarmi, sta bene anche non avere nessuno con cui dormire la sera, però ti prego, adesso che abbiamo trovato un compromesso, che siamo giunte all’accordo che vuole che io mi debba dedicare a sistemare la mia vita prima di poter incasinare la vita di un’altra persona, facciamo che rimaniamo così, che non mi fai più i dispetti. Per piacere. Grazie. E comunque, nel dubbio, sempre forza Lazio.