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Diario londinese di Lorenza Mazzetti

Creato il 12 maggio 2014 da Tiziana Zita @Cletterarie

Lorenza MazzettiTra i protagonisti e fondatori del Free Cinema, movimento nato a Londra negli anni ’50, quella di Lorenza Mazzetti è una storia appassionante, altamente drammatica ma piena di leggerezza e vitalità, che ci ha raccontato un pomeriggio nella libreria di piazza Campo dei fiori a Roma.

Io sono andata a Londra per raccogliere patate. Tutti pensano che sia andata a Londra perché conoscevo tutte quelle personalità. Invece sono andata a Londra per fuggire dalla Toscana. Per fuggire dai ricordi terribili della guerra. Fuggire il ricordo della famiglia che mi aveva adottato insieme a mia sorella. Noi siamo state adottate da nostro zio Robert Einstein, cugino di Albert Einstein, che aveva sposato mia zia, cioè la sorella di papà. Avevo un ricordo atroce che comprende anche il fatto che hanno bruciato la nostra villa, oltre ad aver ucciso loro perché parenti di Albert Einstein.

Lorenza Mazzetti e John Fletcher
John Fletcher e Lorenza Mazzetti

Io non potevo più vivere senza sentirmi pietrificare dal ricordo. Avevo la catatonia di chi si immerge in un ricordo e non riesce più a uscirne. Mentre studiavo mi apparivano nelle pagine dei libri quelle immagini e restavo pietrificata. Allora chiamavo mia sorella perché venisse ad aiutarmi, a scuotermi. Tutti avevano dimenticato e sembrava che niente fosse successo, ma io non potevo.
Comunque le patate non bisognava raccoglierle, mi hanno messo un sacco sulle spalle che mi ha schiacciato. Mi sono trovata sdraiata per terra. Allora mi hanno messo a girare il mestolo in un pentolone ma non ce la facevo a fare neanche quello e si è bruciato tutto. Alla fine mi hanno detto di fare la valigia e andarmi a cercare un altro lavoro.
Lo zio prima di suicidarsi, dopo la morte della moglie e delle sue figlie – le mie cuginette – ci ha lasciato tutta la tenuta e diverse ville Liberty. Insomma non eravamo poveri. Ma non ci occupavamo di questi beni perché c’era un gentile tutore, scelto dal notaio, che si occupava di tutto. Quando abbiamo raggiunto la maggiore età, io sono andata da lui a dirgli che volevo andare a Londra e lui ha detto: “Va bene, posso continuare ad occuparmi delle vostre proprietà se volete. Basta che voi firmiate che siete contente di me”. Naturalmente ho firmato che eravamo contentissime purché mi desse i soldi per andare a Londra. Gravissima cosa perché non abbiamo neanche potuto accusarlo per aver perso tutto, come ha sostenuto, mentre invece ha sistemato i suoi figli.

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Il tutore ha dichiarato bancarotta e io mi sono ritrovata a Londra senza una lira, buttata fuori da una pensione alla quale avevo detto che avrei ricevuto certamente i soldi. Non avevo neanche i soldi per mangiare. Un giorno sono entrata in un ristorante e ho detto che avrei lavorato se mi davano da mangiare. Così ho trovato un lavoro da lavapiatti. Dopo un po’, visto che la notte leggevo e disegnavo, ho pensato che il mio futuro non poteva essere quello di lavare i piatti e che forse potevo andare all’università. Sono andata in un’accademia d’arte dove sapevo che ci andavano i più grandi pittori e scultori. Sono arrivata lì ma non mi hanno accettato perché ero arrivata il giorno prima che aprisse, bisognava fare un esame di ammissione, riempire dei moduli. Io ho urlato tanto che è venuto fuori un signore. Doveva essere un uomo delle pulizie perché era in maniche di camicia con sopra le bretelle. Lui ha chiesto: “Ma che cosa succede?”
“Io voglio parlare col direttore”: gli ho detto:
“Perché vuole parlare col direttore?”
“Perché gli voglio far vedere i miei disegni e perché vorrei frequentare questa università”.
“E come mai?”
“Perché io sono un genio!”
Allora lui si è messo a ridere e mi ha detto di seguirlo. Ha guardato i miei disegni e mi ha detto: “Va bene, da domani può essere nostra alunna”.
“Sì, ma vorrei sapere che cosa dice il direttore”.
“Ma sono io il direttore!”
“In Italia un direttore non si presenta in questo modo”.
“E come si presenta?”
“Con una bella giacca a doppio petto, con i bottoni…”
E lui ha detto: “Ma in Italia un direttore non assumerebbe una come lei in due minuti senza riempire i moduli, fare l’esame d’ammissione e senza conoscere bene la lingua”.

Così sono entrata alla Slade School of Art, dove c’erano insegnanti e allievi interessanti. Gli studenti erano vestiti in modo originale e le ragazze erano bellissime, con dei vestiti a fiorellini e le scarpette da ballo.
Poi un giorno, girovagando per l’università, vedo tante porticine, ognuna con una scritta sopra: club di tennis, di swimming pool, di scacchi. Sull’ultima porticina c’era scritto “Film Club”. Ho aperto e ho visto del materiale che brillava come un tesoro: la macchina da presa, le pizze, i cavalletti, le luci. C’era tutto quello che serve per fare un film. Un po’ alla volta ho rubato tutto. Mi sono portata tutto nella mia stanza e poi ho fatto un film. Non avevo soldi per cui ho girato per la strada, dove ho trovato le persone adatte. Michael Andrews, un mio compagno che era un pittore bellissimo, giovanissimo e molto delicato, è diventato l’eroe del film.

Lorenza Mazzetti, Daniele Paris, John Fletcher, Lindsay Anderson prendono il tè durante una pausa della lavorazione di Together
Lorenza Mazzetti, Daniele Paris, John Fletcher, Lindsay Anderson
prendono il tè durante una pausa della lavorazione di Together

Nella mia stanza avevo appeso un’immagine di Franz Kafka perché come me aveva uno sguardo terrorizzato. Ed è su La metamorfosi di Kafka che ho fatto il film.
Naturalmente ho dovuto stampare, sviluppare, fare la musica, il sonoro. Così sono andata in un laboratorio lì vicino e ho detto che dovevano stampare tutto per l’università. L’uomo del laboratorio mi ha detto: “Ma questo costa un sacco di soldi!” Gli ho detto che avrebbe pagato l’università e ho dovuto firmare un bel po’ di fogli. Poi sono andata a ritirare il film.

In seguito quei soldi sono stati chiesti al direttore dell’università.
Lui ha protestato: “Ma noi non abbiamo fatto nessun film! Chi ha firmato tutte queste carte?” “Una ragazzina italiana che parla inglese con la erre moscia”.
Perciò il direttore mi ha chiamato e mi ha chiesto se intendessi pagare. Mi ha detto che a Londra si va in prigione per queste cose. Gli ho risposto che non avevo una lire, che facevo la cameriera.
“Allora devi andare in prigione”: mi ha detto lui.
“Va bene, vado in prigione”: ho detto io e me ne sono andata.
Lui allora mi ha rincorso e mi ha detto: “Ora facciamo vedere questo film a tutta la scuola nell’aula magna. Se applaudono paghiamo noi, se fischiano vai in prigione”.
E’ stato deciso un giorno. Io ho passato tutto il tempo a vomitare, attendendo quel momento e intanto riguardavo il film che mi sembrava bruttissimo. L’aula magna era piena. Mi ero messa in alto, nascosta dietro a una colonna, quando le luci si sono accese e ho sentito che applaudivano. Non solo. Avevano anche chiamato il direttore del British Film Institute, Denis Forman, che alla fine è venuto su e mi ha chiesto:
“Vuole fare un film senza andare in prigione?”
Io ho risposto di sì.
“Venga domani al British Film Institute con un’idea scritta su una paginetta. Bastano poche righe. Alle cinque le offro una tazza di tè”. Il giorno dopo alle cinque mi sono precipitata all’appuntamento e in effetti c’era un tavolinetto davanti alla scrivania, con sopra il tè, la teiera fumante e dei biscottini. Ma quando lui mi ha chiesto di dargli la paginetta ero così emozionata che ho urtato il tavolino e il tè bollente è caduto sulla sua gamba. Ho visto la gamba che fumava. Ero paralizzata e ho cominciato a urlare di scusarmi, ma lui mi ha detto sorridendo: “Non si preoccupi, la gamba è di legno”. “Ho lasciato la mia gamba a Cassino”. Allora l’ho abbracciato forte.

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Così ho conosciuto altre tre persone che stavano lavorando per lui. Uno era Tony Richardson, ignoto cineasta, Lindsay Anderson, direttore della rivista Sequence e Karel Reisz che era noto per aver scritto un libro sul montaggio cinematografico (La tecnica del montaggio cinematografico: un libro bellissimo! ndr). Il manifesto del Free Cinema l’abbiamo scritto insieme, nel 1956, discutendo un po’.
Free Cinema perché erano film non commerciali, non erano fatti per fare soldi, ma erano la libera espressione di un regista, senza dover piacere ai produttori. I film potevano essere anche corti, anche strani nel montaggio, non dovevano seguire le solite leggi ma potevano essere degli esperimenti nuovi.

Lì ho fatto degli incontri importanti, indimenticabili.
A partire da Michael Andrews, l’attore sia di K e che di Together, poi Edoardo Paolozzi, incontrato in una galleria d’arte senza neanche sapere che era uno scultore che

Diario londinese
poi è diventato un baronetto. Karel Reisz affascinante. Lindsay Anderson che aveva un tono da colonnello e ci dava gli ordini. Io gli dicevo sempre: “Sì, mio capitano”.
C’era un giovane professore che si chiamava Lucien Freud e anche lui come Kafka aveva uno sguardo terrorizzato.
Quello che mi ha salvato è stato il direttore William Coldstream che ha creduto che ero un genio. In Italia invece nessuno ha mai pensato che io fossi un genio, a parte Zavattini. In Italia sono una perfetta sconosciuta. Non ci può essere un artista se non trova un angelo che capisce e che lo aiuta. Zavattini è stato il mio. Il cielo cade è stato rifiutato da tutti gli editori italiani. La guerra attraverso gli occhi di una bambina non interessava la loro casa editrice: questa era la risposta tipica. Una bambina innamorata del duce che scrive le sue letterine in casa Einstein, come poteva non interessare? Zavattini ha detto che era un piccolo capolavoro e anche Attilio Bertolucci, il papà di Bernardo.

 ***

Lorenza Mazzetti è tra i protagonisti e fondatori del Free Cinema, di cui sono espressione i suoi film K (1953) e Together (1956). Regista e scrittrice, la sua vicenda personale è narrata nei libri Il cielo cade del 1961 e Diario londinese, appena pubblicato da Sellerio. Consiglio a tutti questo suo bel libro
che si legge in un baleno.


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