“Non avere una meta ma cento,
prova a ritornare perché il ritorno da senso al viaggio”.
Chinaski, Le cento città
Black Celebration © Paolo Castronovo
La città era deserta alla vigilia di Ferragosto, con le luminarie della festa del patrono a ricordarci gli ultimi scampoli d’estate. Io e Nino siamo entrati nell’agenzia di viaggi, un biglietto del treno ci avrebbe portato lontano da Bagheria e dalle sue belle bugie bucate.
Chilometro dopo chilometro, ogni regione attraversata è una tacca in più verso la nostra affermazione. Ci sediamo nello scompartimento insieme a un prete peruviano e a un ragazzo di colore che dormirà per tutto il viaggio. A Messina entra una donna dell’Est, Nino aveva pregato con ardore: “non può arrivare una bella russa?” e quel buontempone del vecchio barba bianca uno e trino l’accontentò. Sbagliando solo l’età, invece di tre ventenni russe una sessantenne che pesava quanto tutt’e tre assieme.
L’indomani abbiamo cambiato treno a Roma, per le ultime sei ore di viaggio. Abbiamo sul groppone 22 ore di treno e una trentina di chili di bagaglio a testa. Nino ha le idee chiare, adesso fumerà solo sigarette rullate per tagliare le prime spese. Abbiamo in saccoccia la voglia di realizzarci. Per me tornare a Milano è una sensazione strana, mentre prendo la metro verso il nostro ostello di lusso sento che anche questa metropoli sta diventando casa. Nei prossimi giorni ci aspetta la solita mitragliata di curricula e colloqui. Al giro precedente ho cercato di mettere a frutto i miei studi, anche qui la crisi azzanna e stavolta non ci penso nemmeno un minuto a cancellare dalla griglia del curriculum anni e anni di studi e pubblicazioni. Devo restare a galla il più possibile, mi serve un lavoro. Spolvero dalla latta dei ricordi il vecchio sogno di fare il cuoco che per finire impiccato a una cuffia in un call center non sono ancora pronto. E così metto da parte la scrittura e m’infilo il mio grembiule. Scarpe e maglietta bianca, pantaloni blu. Coi baffi che mi son fatto crescere sembro quello che spunta sui cartoni delle pizze.
La stanza la ritrovo tale e quale, una piccola celletta monastica in cui progettare il mio futuro senza dover aspettare che qualcuno si ricordi di me. Ogni metro me lo conquisterò a fatica, lavorando sodo, non guardando il quadrante dello Swatch rosso. Nel giro di tre settimane io e Nino siamo diventati due perfetti ometti di casa: bucato, spesa, cucina. La spesa settimanale all’Esselunga ci permette di sopravvivere spendendo 2 euro al giorno per un pranzo e una cena dignitosissimi, i pantaloni cascano, i cinturini son diventati una specie di hula hop che ci gira sui fianchi.
Nino ha appena iniziato a lavorare in un call center, al minimo sindacale 4 e 70 netti per vender siti alle aziende interessate. Outbound, praticamente l’anticamera dell’inferno. Io son sopravvissuto a due notti a Milano Nord, al centro commerciale di Bicocca, a far l’aiuto cuoco in un ristorante. Ho tagliato quintali di cipolle, trasportato tonnellate di surgelati e lavato almeno novemila piatti e tutti i pezzi della gigantesca friggitrice industriale. Nove ore di fila per due notti, dalle 17 e sino alle 2 e 30 ero lì, in piedi. Senza nemmeno una pausa, in compagnia d’egiziani e indiani che m’hanno subito accolto e dato ottimi consigli, mai farsi beccare fermo, quando hai un minuto libero pulisci le piastrelle della cucina.
E ho pulito, ho pulito sino a puzzare di grasso e della misteriosa salsa barbecue. E poi alle 3 ero alla fermata della 90, a Zara. Ho preso il bus notturno che m’ha lasciato in via Molise sino alle 5 e 9. Profumavo di carne a chilometri di distanza, se passava un branco di cani si sarebbero saziati sino a Natale. Alle 6 sono arrivato a casa, stremato.
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