Recensione di Sabina Terziani
Diavoleide è l’ottavo volume della collana Sìrin classica che ha già ospitato testi di Tolstoj, Cechov e Gogol’, una collana che, sempre secondo Tarabbia, si rivolge a persone «che hanno una certa idea della letteratura e per le quali, probabilmente, Diavoleide non sarebbe stata la prima lettura bulgakoviana. Addirittura, penso che qualcuno si sia comprato Diavoleide o qualche altro titolo di Sìrin classica per vedere com’è tradotto. Come me, anche i miei potenziali lettori, dunque, potevano già avere in casa due o tre versioni del racconto». Io, invece, faccio parte di un altro tipo di pubblico minimamente consapevole della posta in gioco (ho memorie antiche e sbiadite de Il maestro e Margherita), benché molto motivato. Su di me Diavoleide ha avuto l’effetto di un violento giro di giostra. Le avventure dell’impiegato Korotkov hanno l’andamento vorticoso e statico insieme di una giostra da cui non si riesce a scendere. Fotogrammi del mondo reale entrano negli occhi come lampi in sequenza, ma non appena si tenta di dar loro un senso, già il frammento successivo preme per essere visto. Si tende la mano ad afferrare la coda del cavallino che ci precede, mentre gli specchi ci rimandano immagini di individui che ci sfidano con la loro somiglianza… Korotkov ha a che fare con le mille sembianze del perturbante che si fa chiamare come lui, un sosia quasi perfetto che gli ruba il lavoro e l’identità, con un nuovo capo che forse è il diavolo e che cambia forma più volte. Impiegato la cui unica aspirazione è trovare un posticino tranquillo dove lavorare zitto e buono (mentre il Potere lo vorrebbe eroico costruttore d’avvenire) Korotkov sale e scende scale, entra in uffici dove si celebra la burocrazia, ma soprattutto scappa, con movenze da burattino, in un ultimo atto di eroismo insensato come tutti gli altri suoi gesti.
Se Diavoleide è un incubo da cui non ci si può svegliare, dal secondo racconto, Le avventure di Čičikov, sono un sogno da cui il narratore si sveglia dopo essersi liberato del protagonista e aver pagato il debito a Gogol’. Dopo un secolo il Čičikov delle Anime morte torna nella Mosca dei primi anni Venti imprecando contro il suo autore. «Quel figlio del demonio! Che gli cresca sotto ogni occhio una vescica grande come una balla di fieno! Mi ha talmente macchiato, infangato la reputazione che non posso più mettere il naso da nessuna parte. Perché se la gente viene a sapere che sono Čičikov in men che non si dica mi caccia via, mi manda al diavolo! È meno male che mi cacciano e basta, perché qui, dio ci scampi, si rischia di finire pure alla Lubjanka… E tutto per colpa di Gogol’, maledetto lui e tutta la sua discendenza…». Ma Čičikov ci ricasca, si rimette a imbrogliare insieme ai suoi vecchi amici evasi come lui dall’inferno passando per una porta su cui è appesa la scritta “anime morte”. La punizione non tarda ad arrivare e il narratore-funzionario lo elimina in nome del popolo ricevendo dai superiori un regalo a sua scelta, l’edizione rilegata delle opere complete di… Gogol’. Qui Bulgakov va oltre il pagamento di un debito e svela la vera natura del rapporto con i maestri, per cui l’unico destino sensato è essere mangiati in salsa piccante dai propri allievi, come insegnava Pasolini.
Diavoleide di Michail Bulgakov
traduzione di Andrea Tarabbia
Voland, 2012
pp. 98, € 10