Vincitore del premio del pubblico della sezione Panorama allo scorso festival di Berlino (secondo classificato alle spalle di Parada di Srdjan Dragojevic), il ritorno al cinema di finzione di Daniele Vicari dopo il poco riuscito in quanto sostanzialmente superficiale Il passato è una terra straniera 2008), che ebbe però il merito di lanciare l’attore Michele Riondino, era molto atteso. Misurarsi con i tragici fatti del G8 di Genova, infatti, era tutto fuorché un’impresa semplice. Diaz si concentra in particolar modo sulla lunga notte tra il 21 e il 22 luglio 200, raccontando con uno sguardo perlopiù freddo e distaccato (un tratto non certo nuovo nel cinema di Vicari: si pensi anche solo al già citato Il passato è una terra straniera) le violenze perpetrate dalla polizia all’interno della scuola Diaz e poi nella caserma di Bolzaneto, dove gli arrestati furono condotti e torturati per tre giorni dopo essere stati portati in ospedale per le cure essenziali.
Vicari si limita a mettere in scena l’indicibile e ingiustificata violenza di quei giorni (definiti da Amnesty International come “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, come riporta la stessa locandina ufficiale del film), evitando di avanzare possibili spiegazioni o interpretazioni non supportate da prove giudiziarie. Non a caso la pellicola, sceneggiata dallo stesso regista reatino con Laura Paolucci (già sua collaboratrice per Velocità massima e L’orizzonte degli eventi) e in collaborazione con Alessandro Bandinelli e Emanuele Scaringi, opera a monte una scelta di campo rigorosa e condivisibile: si ispira esclusivamente a ciò che è emerso dagli atti dei due processi legati ai fatti della Diaz e di Bolzaneto. Se il film mostra i tragici eventi con efficacia e una indubbia forza espressiva (che Vicari sia un buon regista è fuor di dubbio) e ha certamente il grande merito di contribuire alla diffusione della memoria di una vicenda che non va assolutamente dimenticata, i suoi limiti più evidenti risiedono però proprio nella sceneggiatura (il punto debole anche de Il passato è una terra straniera). Per quanto infatti scorra senza intoppi per le sue due ore di durata e non risulti mai noioso o privo di interesse, Diaz pecca con una certa evidenza nella fondamentale componente della delineazione dei personaggi, cui non riesce a conferire apprezzabile profondità. Il risultato è quindi che, mentre ci si indigna e si rimane profondamente sconcertati dalle barbarie e dalle vere e proprie torture operate dalla polizia, non ci si riesce mai ad appassionare fino in fondo alle vite e alle storie dei vari protagonisti che popolano il film, dal giovane organizzatore del Genoa Social Forum (Davide Iacopini), al vicequestore che comanda le operazioni dentro la Diaz (Claudio Santamaria), passando per il giornalista di Bologna (Elio Germano), il militante della CGIL (Renato Scarpa), la giovane manifestante tedesca (Jennifer Ulrich) o il black bloc Etienne (Ralph Amoussou). Probabilmente ciò avrebbe richiesto una scrittura davvero raffinata, ma avrebbe altresì dato al racconto per immagini uno spessore di gran lunga superiore, offrendo allo spettatore la possibilità di un coinvolgimento ben più intenso e profondo. Nonostante questo, Diaz (in uscita venerdì 13 aprile) è comunque un buon film e merita una visione, soprattutto da parte di coloro che non hanno ancora un’idea precisa di quanto sia accaduto a Genova la notte tra il 20 e il 21 luglio e i giorni immediatamente successivi nella caserma di Bolzaneto.Articolo precedentemente pubblicato su cinemartmagazineMagazine Cinema
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