Il 9 giugno 1865 un treno attraversava il ponte sul fiume Beult, nei pressi di Staplehurst, nel Kent. Il ponte in manutenzione si spezzò come un fuscello sotto il peso delle carrozze, facendole precipitare nel vuoto. Dieci persone morirono in quello che passò alla storia come “il disastro di Staplehurst”, Charles Dickens viaggiava su quel treno, di ritorno dalla Francia: la sua carrozza si fermò miracolosamente a pochi metri dallo strapiombo. Con sé lo scrittore aveva l’ultimo romanzo a cui stava lavorando, che riuscì a recuperare quasi interamente, dopo aver aiutato i feriti: si trattava di Our Mutual Friend, “Il nostro comune amico”. L’incidente di Staplehurst, dunque, finì bene sia per Dickens che per i suoi lettori. Si deve forse allo “scampato pericolo”, l’atmosfera decisamente più ottimista che si respira, soprattutto se paragonata a quella dell’immediato predecessore, Grandi Speranze, il più triste, probabilmente, fra i romanzi di Dickens. “Il nostro comune amico” (letto nell’edizione Einaudi con traduzione a cura di Luca Lamberti) è la storia di John Harmon, che all’estero è raggiunto dalla notizia della morte del padre, della sua eredità e del vincolo al quale è sottoposta: John potrà ottenere ciò che gli spetta solo sposando Bella Wilfer, una donna che non ha mai visto. In caso contrario, il lascito sarà consegnato nelle mani dei coniugi Boffin, la coppia di ex domestici del padre. John architetta così un piano per studiare l’indole di Bella: decide di assumere un’altra identità. Durante il ritorno a casa confida l’idea al compagno di viaggio appena conosciuto ma, una volta a Londra, questi tenta di ucciderlo. Nel corso della colluttazione, l’aggressore muore, finisce nel Tamigi ed è ripescato da Gaffer Hexam, che di mestiere fa esattamente questo: recuperare cadaveri nel fiume, aiutato da sua figlia Lizzy. Così inizia il romanzo: col tranquillo Tamigi che scorre nella notte e una povera barca che recupera un corpo privo di vita. Al cadavere è attribuita l’identità di John Harmon mentre il vero John può assumere il nome di Rokesmith e diventare segretario dai Boffin, per tenere meglio d’occhio la sua promessa sposa.
Il capitolo iniziale è il punto di unione e di separazione di due storie che si svolgono simmetricamente e che s’incroceranno di nuovo alla fine: la principale, quella di John, Bella e dei coniugi Boffin e quella di Lizzy Hexam, del giovane avvocato Eugene Wrayburn, che di lei s’innamora ricambiato e del malvagio maestro Headstone, rivale in amore di Eugene. Le due trame sono attraversate dalla ricca realtà quotidiana che Dickens sapeva raccontare in maniera così intensa: il sottobosco dei sentimenti, nobili e non, che vive dietro ogni maschera. “Il nostro comune amico” è, infatti, un carosello di travestimenti e finzioni che descrive in maniera più precisa di quanto sembra la vita e l’animo umano. Una sorta di masquerade, dove ognuno recita una parte, più o meno consapevolmente, mentre il regista (il destino/lo scrittore) conduce le danze. È una maschera quella che il ricco John indossa, fingendosi povero per farsi amare realmente da Bella, è una maschera quella che indossa Bella, che sopprime le umili origini dietro un’apparenza frivola e distaccata, è una maschera quella che indossano i Boffin, da domestici a ereditieri, da fedeli servitori degli Harmon, a spietati aguzzini di Rokesmith e poi, infine, di nuovo devoti alleati della coppia legittimamente felice. La felicità arriva, alla fine del libro, per tutti coloro che, nonostante le maschere, le finzioni, i trabocchetti della vita, sono riusciti a mantenersi integri, facendo scelte difficili ma coraggiose: Bella rinuncia alla ricchezza, pur di amare John Harmon/Rokesmith e alla fine la sua onestà viene premiata: diventa una vera nobildonna, non per via di un’eredità materiale o di un matrimonio favorevole, ma per una scelta nobile e consapevole, per aver innalzato il proprio animo al di sopra dei meschini, primordiali, istinti umani.
Eugene rinuncia alla sua eredità, al suo status sociale e, soprattutto, alla sua arroganza, pur di sposare l’umile barcaiola Lizzy, che nonostante l’ambiente sudicio e infelice nel quale è cresciuta, si dimostra uno dei personaggi più nobili e fedeli, soprattutto quando decide di sposare Eugene, gravemente ferito e in punto di morte. Eugene non morirà e sarà felice con Lizzy, come saranno felici John e Bella, come saranno felici i coniugi Boffin, simbolo di quella nobiltà che non è determinata dalla nascita ma dalle proprie azioni. Una fine di solitudine e disperazione aspetta invece il malvagio Headstone, come merita chiunque complotti nell’ombra per causare l’infelicità al prossimo. I romanzi di Dickens, dotati di un vivace immaginario sociale e spirituale, si prestano particolarmente alle riduzioni televisive e cinematografiche: in particolare Our Mutual Friend ne ha ispirato tre, tutte prodotte dalla BBC, la prima del 1958, la seconda del 1976 e l’ultima del 1998. Ritenuto da alcuni imperfetto e troppo artificioso, “Il nostro comune amico” è invece la prova più limpida di quella che si può definire “pura magia dickensiana”, quell’energia naturale capace di creare universi emozionali di straordinaria potenza. Il sapiente uso della parola, unito a un eccezionale spirito di osservazione, mette a confronto i sentimenti più nobili (fedeltà, altruismo, coraggio) e gli istinti più bassi (tradimento, viltà, bramosia) in una sorta di epifania della lotta fra bene e male, condotta, però, da semplici uomini. Per questo ne “Il nostro comune amico” ciò che conta non sono i singoli eventi che formano la trama, quanto piuttosto la meticolosa parata di tipi umani, modelli eterni e sempre validi, ed è a questa dote innata che Dickens deve la sua immortalità.