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Dickens 200: Oliver Twist

Creato il 24 luglio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Dickens 200: Oliver Twist

Dickens. Charles Dickens. Scrivi il suo nome e subito la mente si riempie di fuliggine, polveri chimiche, case annerite per via degli effetti della seconda rivoluzione industriale, quella che vide l’esiziale inurbamento delle industrie nei maggiori centri inglesi e che devastò le condizioni delle classi subalterne. Twist. Oliver Twist. Scrivi il suo nome e subito la mente va a un ragazzino cencioso, smunto, polveroso, che si arrabatta tra i quartieri poveri di una Londra fino ad allora mai così sporca, alla ricerca di un piccolo angolo di paradiso (borghese). Ci sono romanzi che meglio di ogni altri esemplificano lo spirito del proprio tempo e, in questo senso, “Oliver Twist” vale come un poderoso volume di sociologia concernente la realtà, le aspirazioni, i problemi e le illusioni della società vittoriana. Dickens, nonostante la giovane età in cui scrisse il romanzo che gli diede il successo che gli sorrise per tutto il corso della vita, compie una scelta di fondo dettata dalla voracità delle sue letture: “inscatolare” la classica storia di formazione del giovane Oliver all’interno di una cornice vivida e dai tratti marcatamente realistici. “Oliver Twist” è da subito attraversato da due esigenze che, come due rette parallele, sembrano non incontrarsi mai e giungono a risultati artistici tra loro divergenti, pur all’interno di uno stesso romanzo. La componente più meramente narrativa, quella che dovrebbe attirare le simpatie del pubblico verso le sfortunate vicende del piccolo orfano, centra il suo obiettivo ma ad un prezzo molto caro: la pateticità. L’in-credibile (il trattino ha qui valenza ontologica) serie di fatti che si susseguono in così poco tempo nella vita del decenne Oliver richiamano alla mente tanti topos del romanzo di formazione settecentesco, per ragazzi e non. Questi espedienti, già piallati da tanta alta tradizione, hanno l’inevitabile approvazione del grande pubblico, desideroso di emendarsi con storie di riscatto che possano lavare la coscienza ai ricchi e impomatarla ai poveri. Più borghesi dei borghesi sono da sempre gli aspiranti borghesi: e Dickens mostra il suo conservatorismo sedicentemente illuminato non sapendo andare oltre la storia di uno squattrinato trovatello che, avversato dal fato, è in realtà erede di una cospicua fortuna e membro di un agiato gruppo di gentiluomini.

una immagine di Immagine tratta dal film Oliver Twist 1948 di David Lean1 su Dickens 200: Oliver Twist

L’alternanza tra drammatico e comico è pesata col bilancino e lo scrittore inglese la motiva pedagogicamente all’interno del romanzo ricordando come «sia costume sul palcoscenico in tutti i melodrammi sanguigni, di presentare scene comiche e scene drammatiche in un ritmo regolare. Tali cambiamenti appaiono assurdi: ma essi non sono così inusuali come sembrano a prima vista. Il passaggio nella vita reale da una tavola ben apparecchiata al letto di morte, e da abiti da lutto a vestiti da festa non sono di meno incredibili: soltanto, là, noi siamo protagonisti, invece di spettatori passivi e ciò fa una grande differenza». Il pugno è preludio della carezza, insomma, e quando il meccanismo si palesa Dickens riesce a svincolarsene con gran maestria stilando un finale pirotecnico dove il castigo punisce meritoriamente tutti i cattivi, perfino il cane di Bill Sikes. Proprio sui cattivi si abbatte la scure del moralismo dickensiano, che non ammette attenuanti e ripensamenti. Anche Nancy, la prostituta appartenente alla congrega di Fagin, trova una morte violenta, come se il suo parziale ravvedimento non bastasse a salvarla da un passato troppo segnato. Spingendo l’interpretazione verso un’impronta personalistica si può forse affermare che l’unico personaggio in chiaroscuro del romanzo sia stato in realtà una concessione ai gusti del lettore e agli snodi della storia, e che in realtà il giudizio di Dickens su tali personaggi sia ben più netto. Questo si può facilmente presupporre dalla trattazione dell’altra metà della società. I buoni del libro sono infatti tutti filantropi che scavalcano presto la linea della verosimiglianza. Nemmeno ai lettori più ingenui o ai sottovalutati estimatori del romanzo per ragazzi possono risultare alla lunga credibili personaggi che si muovono in una sorta di aura metafisica, alla pari di angeli del bene nei quali la bontà è innata ed è l’unica scelta possibile, non essendo nemmeno contemplata l’idea di una decisione personalistica. Soltanto il possesso di denaro e un lignaggio aristocratico rendono una persona perbene: è solo nella cerchia dei propri benestanti amici che Oliver potrà attuare la sua predisposizione al bene. Contrastivamente, la figura più interessante del romanzo risulta essere quella di Monks, che riesce a fuggire, almeno nell’immediato, alla punizione dickensiana.

una immagine di Immagine tratta dal film Oliver Twist 2005 di Roman Polanski 1024x680 su Dickens 200: Oliver Twist

Figlio di un gentiluomo, possessore (anche se fraudolentemente) di una buona rendita, egli sembra avere una corrosione più forte della buona indole paterna, ereditata dal cattivo matrimonio indotto dai parenti della madre. Come a riaffermare la superiorità genetica del Male, che nemmeno un buon ambiente può sanare. Se lo svolgersi della vicenda scade fin troppo nel melenso, questo fattore è redento da un’attenzione agli emarginati mai così precisa in uno scrittore acclamato dalle masse. L’altra direzione in cui va il romanzo è infatti quella di un’ambientazione tratteggiata con la consapevolezza di chi ha vissuto nelle zone più povere di una grande metropoli. Dickens fa così di Oliver Twist un proprio possibile alter ego: esorcizza una delle possibili nefaste direzioni che avrebbe potuto prendere la sua vita raccontando il lato oscuro e sconosciuto di Londra, centro economico-finanziario. Anche nella sede della Borsa più potente d’Europa vi sono bambini che non conoscono l’infanzia, terribile paradosso nel quale vengono costretti da adulti che li obbligano a indossare le loro vesti quando ancora non ne sono fisiologicamente capaci. Bella a questo proposito la figura di Jack Dawkins (“Il Furbacchione” o “Il Dritto”, a seconda delle traduzioni), con le sue maniche troppo lunghe e gli abiti flosci. Ma è tutto l’ambiente a incrostarsi del nero degli scarichi industriali e le case ad essere rattoppate alla buona come tessuti scuciti, dando vita ad aditi sporchi e bui. Più dei volti sono queste stamberghe a portare sulle loro facciate o nelle loro sudice stanze le cicatrici di un’industrializzazione selvaggia, che ha travolto le vite di centinaia di migliaia di persone promettendo loro una ricchezza destinata invece a pochi. L’idealismo vittoriano, presente nella nuda ascesa di Oliver, deve poter passare sopra turandosi il naso sugli inevitabili martiri del progresso. Merito però di Dickens, cantore di questa mentalità, è aver insistito con insospettabile tenacia sulle vittime reali che il capitalismo comporta. “Oliver Twist” è in fondo una favola ma ciò che importa al lettore non è tanto la morale, sorpassata, quanto il contesto sociale che inviluppa tutta la storia. Tra Oliver Twist e Charles Dickens noi propendiamo decisamente per quest’ultimo.

una immagine di Copertina di una delle tante edizioni pubblicate in Italia di Oliver Twist Newton Compton Editori su Dickens 200: Oliver Twist


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