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Die Hard: la saga

Creato il 03 marzo 2013 da Ildormiglione @ildormiglione

Yippee-Ki-Yay Motherf*cker!

Ogni eroe del cinema che si rispetti deve necessariamente avere due caratteristiche comuni: un villain degno di nota che esalti le capacità dell’eroe, ed un proprio motto che lo identifichi. John McClane, ossia un Bruce Willis con un physique du role perfetto, utilizza come urlo di battaglia e gioia “Yippee-Ki-Yay“, spesso condito da qualche espressione colorita. L’origine di questa frase probabilmente è da ritrovare nel film “Rhythm on the Range”, film del 1936, in cui il protagonista Bing Crosby (per intenderci il premio Oscar del ’45 per “La mia vita“) canta “I’m an old cowhand“, brano che racconta la storia di un cowboy che non è realmente un cowboy. Questo brano, in cui l’espressione “Yippee-Ki-Yay” viene ripetuta diverse volte, non può non legarsi indelebilmente a Die Hard, dato che Hans Gruber, il primo villain della saga interpretato da Alan Rickman, si rivolge a McClane apostrofandolo come un cowboy (“Credi sul serio di avere qualche speranza, povero cowboy?“), il quale risponde con quello che diventerà il suo motto ufficiale (“Yippee-ki-Yay, pezzo di merda.”). Ma partendo da questa caratteristica che accomuna i 5 film (per ora) della saga, diamo un’occhiata più da vicino a McClane ed ai cattivi della saga. 

John McClane, un duro a morire

A 4John McClane, un uomo condannato ad essere costantemente l’uomo giusto nel momento e nel posto sbagliato. Difficile collocare questo personaggio nell’olimpo dei classici personaggi del cinema d’azione, perchè non ne segue i canoni estetici, morali e fisici. Cercando di contestualizzare, “Die Hard – Trappola di cristallo”, il primo della saga , è un film del 1988, e quelli erano gli anni della presidenza machista e patriottica di Ronald Regan, gli anni d’oro del cinema d’azione dominato da Arnold Schwarzenegger con i suoi “Terminator”, “Commando”, “Predator”, “Codice Magnum”, e da Sylvester Stallone con i suoi “Rambo”, “Rocky” e “Cobra”. Bruce Willis, attore sino ad allora poco noto e poco avvezzo al genere d’azione (era famoso per la serie “Moonlight” e per la commedia romantica “Appuntamento al buio“), vestirà i panni di un eroe diverso, quel John McClane destinato ad entrare nella storia. Questo perchè i personaggi d’azione erano, fino ad allora, inarrestabili macchine da guerra, con cui lo spettatore non poteva identificarsi ma al più poteva osservarne incuriosito le gesta puntando su chi sarebbe stato il prossimo nemico morto. “Die hard” arriva in quel polverone di testosterone ed indistruttibilità spiazzando i canoni del genere in maniera decisiva: John McClane non è indistruttibile come Schwarzenegger, non è l’ipersteroidato di turno, non ha idea di cosa stia facendo essendo dedito all’improvvisazione, viene costantemente ferito, anche gravemente, e si salva spesso solo per colpi di fortuna esplicita. McClane non è serio e pieno di sé come Stallone, non è mosso da sentimenti patriottici ma più da un senso morale e sentimentale, è sempre ironico, spesso impaurito, si autocommisera e si prende in giro da solo quando piange e si sfoga con il poliziotto di turno. Il personaggio creato sulla pelle di Bruce Willis è un antieroe che non indossa caschi o mantelli, ma al più una canottiera che non impiegherà molto a sporcarsi diventando sporca di sangue, fango, grasso e chi più ne ha più ne metta. Fondamentalmente si potrebbe definire questo personaggio sfortunato, dato che inconsapevolmente si trova sempre a fronteggiare situazioni al limite nonostante voglia solo essere lasciato in pace, ed allo stesso tempo fortunato perchè riesce sempre a cavarsela, tra colpi di genio, colpi di pistola e situazioni fortunose. Tutto questo fa di John McClane uno dei personaggi più umani del genere action figlio degli anni ’80, permettendo allo spettatore di affezionarsi a lui, ma soprattutto crea empatia permettendo un processo di immedesimazione importante per poterne apprezzare fino in fondo le qualità.

Hans Gruber, “Die Hard – Trappola di cristallo”

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John McTiernan, regista altalenante che ha lavorato in film come “Predator” e “Caccia a ottobre rosso” ma anche a “Last action hero” e “Il 13° guerriero“, viene incaricato di dirigere un film tratto dal romanzo “Nothing lasts Forever” di Roderick Thorp. La storia è lineare: un grattacielo viene assalito da un gruppo di quelli che sembrerebbero terroristi ma che in realtà sono “solo” ladri preparatissimi e con un piano perfetto. Perfetti si, ma non hanno calcolato l’imprevisto: John McClane, che si trovava lì per caso e solo per caso non diviene ostaggio insieme ad altre 30 persone, e che dovrà muoversi in verticale, tra un piano e l’altro, per salvarsi e salvare i civili. A comandare i cattivi ci sarà Hans Gruber, interpretato da un Alan Rickman capace di controbattere all’ironia di Bruce Willis, risultando affascinante e tagliente, come un altro personaggio storico di Rickman, ossia lo sceriffo di Nottingham di “Robin Hood – Il principe dei ladri“. In questo duello classico che vede contrapposto il bene, unico e solitario, al male, ben addestrato e capitanato da una mente superiore alla media, troviamo due fattori importanti e fondanti: l’inefficienza della polizia, specie del FBI, che viene messa costantemente in ridicolo apparendo agli occhi dello spettatore quasi grottesca; e l’influenza dei media, più marcata in “Die hard – 58 minuti per morire”, che non sempre svolgono un lavoro propositivo ma appaiono come disturbatori e fonti di complicazioni evitabili. Come un buon film d’azione deve fare, “Die hard – Trappola di cristallo” mescola tutti questi ingredienti con sagacia e intelligenza, dando il giusto spazio a questi fattori senza toglierne all’azione che deve essere necessariamente il punto cardine del film. Colpi di scena, pallottole, cadaveri di entrambi gli schieramenti, ironia e azione sono così il leitmotiv della pellicola di McTiernan, che di certo ha alcune sbavature (i cattivi tedeschi, e in altri film russi, sono un cliché dell’action movie) ma che riesce, da outsider, a porsi in cima all’olimpo del cinema d’azione.

Voto 7/10

Colonnello Stuart e generale Esperanza, “Die hard – 58 minuti per morire”

58 minuti per morire

Nel 1990 si rende necessario girare un sequel del fortunato “Trappola di cristallo”, e questa volta la regia viene affidata, per motivi ignoti, a Renny Harlin, regista dell’impietoso “Le avventura di Ford Fairlane”. Questa volta John McClane non vedrà più il suo carisma e la sua ironia rinchiusi in un grattacielo, ma liberi di spaziare in un intero aeroporto. Si decide di cavalcare l’onda del poliziotto solitario che deve cavarsela da solo contro l’ostracismo della polizia stessa, ma in “58 minuti per morire” il cambiamento più importante, oltre agli spazi di azione, riguarda il numero di cattivi. Se nel primo film infatti l’intera banda di terroristi era capeggiata da un unico uomo, questa volta troviamo lo spietato colonnello Stuart che deve liberare il perfido generale Esperanza, interpretato dal nostrano Franco Nero. Se possibile questi due villain risultano essere ancora più “bastardi” di Hans Gruber, ma allo stesso tempo è evidente che siano privi di quell’ironia e quella arguzia che contraddistinguevano Rickman. Durante il film infatti, pian piano lo spettatore finirà con il dimenticarsi del colonnello e del generale, concentrandosi solo e soltanto su John McClane, per via della scelta esplicita di giocarsi tutto con il protagonista. Ma si sa, ogni eroe deve avere un antagonista all’altezza, altrimenti si avrà l’impressione che si cerchi solo l’esaltazione dell’autocelebrazione. Ed è ciò che accade qui. “Die hard – 58 minuti per morire” è un passo indietro notevole, in cui mancano totalmente le caratteristiche del capolavoro di McTiernan per favorire l’azione, qui molto più esagerata e inverosimile (il finale ad esempio è un’eccellente prova del motto “come gettare alle ortiche quanto fatto di buono fino a quel momento”), e la spettacolarità delle prestazioni di McClane, in questo caso molto più sceriffo e “americano” del primo film. In poche parole l’idea di lasciare più spazio a Bruce Willis era giusta, ma Harlin doveva sicuramente lasciare meno spazio a tanta mediocrità.

ps. Da sottolineare tre camei di attori sconosciuti che di lì a poco diventeranno attori importanti: Robert Patrick qui è uno scagnozzo del colonnello, e l’anno dopo interpreterà il T-1000 in “Terminator 2 – Il giorno del giudizio”, trovando il successo; John Leguizamo è un altro scagnozzo che diventerà famoso per film come “Carlito’s way” di De Palma, “Romeo + Juliet” e “Moulin Rouge” di Baz Luhrmann; Colm Meaney che qui è il pilota di un aereo che si schianta, negli ultimi anni ha interpretato ruoli in “Il maledetto United” e “Giustizia privata” tra gli altri.

Voto 5/10

Simon, “Die Hard – Duri a morire”

Duri a morire

Bisogna aspettare 5 anni per vedere il ritorno al cinema di John McClane, ed è un ritorno totale: la regia viene affidata nuovamente a McTiernan, le tematiche tornano ad essere quelle del primo film, e persino la trama è strettamente legata all’esordio della saga. Questa volta ci si rende conto, saggiamente, che John McClane per tornare ad essere un personaggio in cui immedesimarsi, deve slegarsi dal filone “solitario e sfortunato”, e deve necessariamente essere accompagnato da una spalla degna, ma che non ne intacchi la grandiosità. La storia è quella di un terrorista che si fa chiamare Simon ed ha la passione per le bombe e gli indovinelli. Oggetto del suo macabro e psicopatico gioco é John McClane, che si ritrova ad essere affiancato da uno sfortunato Zeus (un Samuel L.Jackson meraviglioso ma totalmente diverso da quello tarantiniano), che riveste in “Die hard – Duri a morire” il ruolo dello “sfigato” che era di Bruce Willis nei primi film. I due dovranno girare per l’intera città di New York per essere pedine del gioco di Simon. Ma chi è Simon? Evitando spoiler che rovinerebbero la piacevole visione di questa pellicola, possiamo dire che è interpretato da un iconico Jeremy Irons che riesce a tenere botta al poliziotto più sfortunato d’America, giocando con le sue stesse armi: ironia e sagacia. Simon è una versione migliorata e più efficiente di Hans Gruber, ed incarna tutti i valori del male più classico: avidità, crudeltà, indifferenza verso la vita. Questa volta però non sarà aiutato dall’inefficienza della polizia, come nei due capitoli precedenti, ma si servirà di un piano diabolico quanto geniale e di un esercito al suo comando. Anche in questo capitolo ritorna il tema dei media, meno marcato rispetto al secondo e più sottile come nel primo, in cui l’informazione spesso è pilotata e finalizzata al solo “scoop” e non è mai al servizio reale del cittadino. “Die hard – Duri a morire”, è il capitolo più avvincente e ironico dell’intera saga, e la coppia Willis-Jackson è ben assortita e funzionale al progetto. Qui McTiernan, forte dell’esperienza con “Die Hard – Trappola di cristallo”, perfeziona la struttura, evita ingenuità commesse in precedenza e riesce soprattutto a trovare la dimensione ideale di John McClane. “Die Hard – Duri a morire”, rappresenta un’evoluzione del personaggio e il regista statunitense dà una lezione di maturità e apertura mentale. Chiedere al testardo Harlin per conferma!

Voto 8/10

Thomas Gabriel, “Die Hard – Vivere o morire”

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Quando sembrava tutto concluso con una trilogia entrata nel cuore di chiunque, viene presa la decisione di riprendere in mano il personaggio di John McClane, dargli una bella lucidata, e rimetterlo in moto contro i nemici più svariati. A posteriori viene da chiedersi: non era meglio che Die Hard si concludesse con una strepitosa trilogia? A non pensarla così evidentemente c’è Len Wiseman, regista della saga vampirico-licantropa “Underworld”, che 12 anni dopo decide di proseguire la saga con “Vivere o morire”. C’era sicuramente da aspettarsi una certa modernità dei temi e dell’azione più affine all’attualità. E sin dalle prime scene ci si rende conto di non sbagliarsi, essendo l’intera trama legata alla tecnologia, a cui non è affatto abituato McClane (in “Die hard – 58 minuti per morire” dice “Per me il progresso si è fermato alla pizza surgelata”), e che in fin dei conti può essere vista come un altro nemico storico del cowboy duro a morire. Tra attacchi informatici, hacker e codici di programmazione, Bruce Willis non è propriamente a suo agio e dovrà affidarsi a Justin Long per combattere contro l’esercito, virtuale ma anche reale, comandato da Thomas Gabriel, ossia la promessa Timothy Olyphant , che di lì a poco uscirà rivisitato per via dell’inguardabile “Hitman”. Qui il villain ha capacità mentali ben superiori a qualsiasi altro nemico storico di McClane, e può disporre di mezzi ben più grandi. Nei primi tre film il nemico era circoscritto al territorio d’azione (nel primo in pericolo erano gli ostaggi del grattacielo, nel secondo i passeggeri degli aerei in volo e nel terzo gli abitanti di New York), e soprattutto mosso da interessi puramente egoistici, qui il nemico minaccia l’America intera, e di conseguenza l’intero mondo, ed è mosso da fattori ben più complessi che toccano temi come vendetta, dimostrazione di superiorità e avidità. In breve, la questione di “Vivere o morire” è ingigantita all’ennesima potenza, dato che McClane dovrà salvare il mondo, come il più classico e banale degli eroi americani degli action movie. Ma la cosa che lascia davvero perplessi è l’eccessiva spettacolarizzazione delle situazioni, che da un lato diverte e appassiona, ma dall’altro è totalmente inverosimile ed esagerata (si prenda ad esempio tutta la sequenza del camion braccato da un aereo da guerra che distrugge qualsiasi cosa e che si conclude con un salto sull’aereo in volo, perchè in quel momento viene spontaneo dirsi “Ora è davvero troppo!”). E’ evidente la voglia di seguire le orme del predecessore (affiancare un civile a McClane, ambientarlo per le strade senza limiti), ma è altrettanto evidente il fallimento di questo processo perchè ancora una volta si preferisce lo spettacolo puro e immediato a qualcosa di più sofisticato e originale.

Voto 5-/10

Komorov, “Die Hard – Un buon giorno per morire”

Recensionie QUI

Per completezza concludiamo solo dicendo che a questo punto ci auguriamo non ci siano più sequel che distruggano la figura epica di John McClane. 

 



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