Dieci anni fa, il 12 marzo 2003, veniva assassinato Zoran Djindjic. Il premier della Serbia e presidente del Partito democratico fu colpito e morte da un cecchino mentre scendeva dalla propria vettura nel cortile del palazzo del Parlamento di Belgrado. Una vicenda che sconvolse la Serbia e la comunità internazionale per il ruolo che Djindjic stava svolgendo e avrebbe potuto svolgere per il futuro del Paese dopo le guerre degli anni '90 e nel pieno del periodo oscuro e difficile seguito alla caduta del regime di Milosevic nel 2000.
Djindjic era stato eletto nel gennaio del 2001 e già nel suo primo intervento, rivolgendosi ai membri del Parlamento, il neo premier aveva sottolineato il principale impegno del suo esecutivo: inaugurare una stagione politica nuova per risolvere i tanti problemi ereditati dal regime di Milosevic a partire dall'economia distrutta da dieci anni di conflitti, fino al problema del Kosovo. L’avvio delle riforme economiche e sociali, l'impegno per una maggiore trasparenza nella vita politica, l'impegno contro la criminalità politico-mafiosa, la volontà di collaborazione con la giustizia internazionale, con l'arresto di Milosevic e la sua consegna al Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia, consentirono a Djindjic e al suo governo di riconquistare la considerazione della comunità internazionale e fecero riguadagnare rispetto alla Serbia.
In una delle sue ultime interviste, replicando alla critica di non essere abbastanza patriottico, Djindjic rispose che per lui patriottismo significava impegnarsi affinché i suoi figli potessero rimanere a vivere nel loro Paese, potessero parlare la loro lingua e non dovessero essere costretti emigrare in cerca di lavoro. Oppositore di Slobodan Milosevic, sincero democratico, uomo di cultura, europeista, Zoran Djindjić fu un nemico giurato della Serbia dei criminali: criminali di guerra, mafiosi, politici corrotti. Ma i suoi oppositori, le trame occulte che legavano apparati dello Stato, elementi del vecchio regime, ex militari, militari in servizio e organizzazioni criminali, in quegli anni erano ancora potenti. L’impegno di Djindjic diventò troppo scomodo e la decisione di eliminarlo divenne inevitabile.
Tre giorni dopo l’attentato che gli costò la vita, centinaia di migliaia di cittadini parteciparono ai funerali del leader che stava dando una speranza ai serbi che volevano lasciarsi alle spalle il regime di Milosevic. Alle esequie erano presenti anche settanta delegazioni internazionali. Lo stesso giorno dell’assassinio, il governo serbo accusò come organizzatori ed esecutori i membri del cosiddetto "clan di Zemun", indicando come capi di questo gruppo Milorad Ulemek Legija, ex comandante della disciolta "Unità per le operazioni speciali", i famigerati "Berretti rossi", Dusan Spasojevic e Mile Lukovic Kum.
L'inchiesta permetterà di scoprire che il cecchino che sparò contro il premier, Zvezdan Jovanović, apparteneva al potente clan mafioso di Zemun. Le indagini e i processi hanno portato all’arresto di altri membri del clan che, con le loro testimonianze, hanno inchiodato Milorad Ulemek "Legija". Organizzatori e esecutori materiali dell'omicidio sono quindi stati assicurati alla giustizia, ma ciò che non è stato chiarito e che probabilmente resterà tra i misteri della Serbia moderna è chi furono i mandanti politici dell'assassinio di Zoran Djindjic.
Oggi, in Serbia tante cose sono cambiate, ma tanti problemi sono rimasti sul tappeto. In un periodo di incertezza politica e sociale, con la pesante crisi economica in atto e una crisi di governo in vista e la possibilità di elezioni anticipate il prossimo autunno, a poco più di un anno da quelle del maggio 2012 che hanno cambiato gli equilibri politici a Belgrado, ci si chiede se in Serbia ci sia qualcuno oggi in grado di riprendere l’opera iniziata da Zoran Djindjic, e di dare finalmente alla Serbia quella prospettiva democratica, riformatrice ed europea che la sua uccisione ha fino ad oggi ritardato.
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