Vedere la quantità oceanica di romanzi, saggi, libri fotografici, fumetti, ricettari, manuali di ogni genere e altri codici ISBN che in questi giorni viene riversata nei padiglioni di Earl’s Court nella speranza di trovarle un pubblico pagante, come al solito mi scatena dentro un treno di domande su quale sia, oggi, il senso dello scrivere e del sudare sette camicie per riuscire a pubblicare.
Ogni stand propone almeno una decina di titoli irrinunciabili (a detta dell’editore che espone, ovviamente), di autori destinati a influenzare la cultura e l’arte letteraria, di geni della parola che oggi sono best seller assoluti e che fra sei mesi nessuno si ricorderà.
Mi viene in mente quel tipo di pane tanto popolare in Liguria e credo in molte altre zone d’Italia, i così detti libretti, ottimi appena freschi, meravigliosi da farcire con prosciutto e formaggio o per fare la scarpetta nel sugo degli spaghetti, ma completamente disgustosi ed inservibili già il giorno dopo quando, diventati secchi e duri come pietre, vanno bene al massimo per gettarli alle anatre nel ruscello sotto casa (ammesso e non concesso che si abbia, sotto casa, un ruscello popolato da anatre).
Mi chiedo se capiti solo a me, di avvertire questa specie di repulsione per l’idea di scrivere ancora, contribuendo anch’io, nel mio piccolo, al soffocante sovrappopolamento dell’industria editoriale; mi chiedo se scrivere e pubblicare siano davvero ancora una forma efficace per provare a uscire dall’anonimato che tanto sembra darci fastidio all’anima, o se invece, paradossalmente, finire nel catalogo di uno delle decine di migliaia di editori al mondo, non sia solo un modo diverso per appartenere ancora di più alla massa dei tanti indistinguibili nomi di un catalogo-novità senza fine.
D’accordo… a muovere lo scrittore e la sua penna, più che l’ansia di pubblicazione e di successo, deve sempre essere un bisogno di raccontare, di registrare i fatti, le emozioni e i possibili significati da attribuire ad essi. Ma l’agorafobia che coglie quando ci si ritrova smarriti nella sovrabbondanza di una Fiera del Libro internazionale un po’ di nausea e di eccessiva sazietà le fa venire. Proprio come se, presi da un appetito divorante, si fossero comprati dieci chili di libretti ch, ahinè, il giorno dopo, sono solo farina rappresa buona per le anatre.
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