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Dieci domande a dieci scrittori-traduttori. Lo scrittore di novelle: Matteo Rigetto

Da Matteotelara

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Scrittore (ha pubblicato quattro romanzi: Savana Padana, ZONA, 2009 e TEA, 2011; Bacchiglione Blues, Perdisa Pop, 2011; La pelle dell’orso, Guanda, 2013; e il quarto, Apri gli occhi, appena uscito con TEA; più vari racconti) ma anche insegnante di sociologia della letteratura e docente esterno della Scuola Holden, ideatore della Scuola Twain e fondatore, insieme a Matteo Strukul, del movimento letterario Sugarpulp

1) Ne viene fuori l’immagine di un autore poliedrico, capace di dedicarsi con entusiasmo ai vari campi connessi a quello che oramai, anche in Italia, viene chiamato lo storytelling. È così?

Poliedrico sì, anche se credo che questa mia caratteristica vada intesa soprattutto come una peculiarità legata a un personale percorso di ricerca narrativa. La continua ricerca  di una voce che tenta di trovare una propria originalità. L’entusiasmo è una componente necessaria in ogni tipo di attività, anche quella letteraria. Se esso mancasse o si affievolisse di fronte alle prime, inevitabili difficoltà che si debbono necessariamente affrontare e superare scrivendo un romanzo, allora non si arriverebbe mai a produrre alcunché. Credo infatti che entusiasmo e disciplina siano due facce della stessa medaglia.

2) Mi risulta che stai anche lavorando in prima persona alla trasposizione cinematografica del tuo romanzo, La pelle dell’orso. Pochi scrittori, non solo in Italia, sono passati dalla carta stampata alla macchina da presa. Quali differenze hai trovato? Stai cercando immagini che rispecchino quello che vedevi mentre scrivevi il libro o hai deciso di lasciare che sia il cinema a trovare, in maniera autonoma, la sua versione della storia?

In verità non sono mai passato dalla scrittura alla macchina da presa, nel senso che io faccio lo scrittore ed è bene che a fare regia ci pensino i registi. Sono però stato coinvolto nella sceneggiatura del film tratto dal mio romanzo. Insieme con Marco Paolini, Enzo Monteleone e Marco Segato ho riflettuto e lavorato molto sulla trasposizione cinematografica del libro e sulle diverse possibilità interpretative che potevano essere operate nel film. Nel complesso però ho lasciato piena autonomia agli sceneggiatori e al regista, anche perché ritenevo che così dovesse essere. A ciascuno il suo mestiere; soprattutto in un mondo, quello artistico-culturale, nel quale sono molti quelli che credono di saper fare tutto.

3) A proposito de La pelle dell’orso, tuo penultimo romanzo, e di quella che normalmente viene definita ‘narrativa per ragazzi’, tu dichiari, in un’intervista rilasciata al ‘Sherwoodfestival 2013’, che quando scrivi ti rivolgi a tutti, e che ami chiamarti un narratore popolare. È una definizione che mi piace molto. Puoi parlarcene?

“La pelle dell’orso” non è narrativa per ragazzi, bensì narrativa anche per ragazzi. Se guardiamo fra quelli che sono i capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi, ci rendiamo conto che moltissimi fra essi erano stati inizialmente compresi ed etichettati dalla critica come opere di letteratura per l’infanzia, salvo poi scoprire nel corso dei decenni e magari dei secoli che quei racconti e quei romanzi erano effettivamente rivolti a tutti: ricchi e poveri, grandi e piccoli, uomini e donne. Ecco perché sono romanzi popolari. Perché certe storie sono realmente universali e vivono per sempre, in ognuno di noi, entrando addirittura a far parte del patrimonio culturale  e dell’immaginario collettivo di una società. Quando ho scritto la pelle dell’orso la mia ambizione era esattamente questa: raccontare una storia popolare e provare a farlo bene, meglio che potevo. Ci sono riuscito? Non lo so, però ci ho provato. Ho provato a raccontare una storia che in qualche modo si proponesse come un archetipo rivisitato in maniera originale, in cui trattare temi forti e sempre attuali come il rapporto tra un padre e un figlio, la paura, il rapporto tra uomo e natura, il topos del capro espiatorio.

4) Nel 2009 esce il tuo primo romanzo, Savana Padana, edito da Zona (e successivamente, nel 2011, da TEA) e al tempo stesso fondi, con Matteo Strukul, Sugarpulp. Le due cose sono connesse? E cos’è esattamente Sugarpulp?

Il movimento Sugarpulp è nato proprio per giustificare culturalmente un romanzo come Savana Padana. Mi spiego. Avevo scritto questa storia pulp divertente e sarcastica ma anche forte, dissacrante, slabbrata e politicamente scorretta, e mi rendevo conto che per i temi trattati, l’ambientazione veneto-rurale e la dialettofonia, quella storia non avrebbe destato la curiosità di nessuno, così ho inventato e fondato il movimento Sugarpulp (con un suo specifico manifesto artistico) ispirato alla valorizzazione di una narrativa forte e legata al territorio veneto, offrendo così una sorta di humus culturale in seno al quale far nascere questo romanzetto dissacrante. Un movimento quindi che giustificasse culturalmente l’opera letteraria, che le desse uno spessore, un riconoscimento, per così dire. Si sparse la voce intorno al movimento e il libro fu subito notato e apprezzato. Il critico Giovanni Pacchiano lo recensì ottimamente sul Domenicale del Sole24Ore e due giorni dopo fui chiamato a Milano da Piergiorgio Nicolazzini, uno dei migliori agenti letterari europei. Da lì è cominciato tutto. Ora, a distanza di qualche anno, posso dire, tra le altre cose, che anche Savana Padana diventerà un film. Ma è presto per parlarne.

5) Scrivere – questa attività che da sempre cerchiamo, forse a torto, di definire – cosa significa per te?

Domanda difficilissima. Potremmo parlarne per ore. Diciamo che scrivere per me è una superflua necessità.

6) Parliamo della Scuola Twain: com’è nata? E com’è cambiata in questi anni di attività?

Scuola Twain è un progetto nato sostanzialmente per portare gli scrittori nelle scuole e  promuovere grazie ad essi degli incontri e dei corsi di lettura e scrittura creativa. Insomma: una vera e propria promozione letteraria diretta tra autori e ragazzi, senza medium. Inizialmente il successo è stato notevole, tant’è vero che vi era un coordinatore in ogni regione italiana, poi via via il progetto è stato inevitabilmente ridimensionato a causa della mancanza di fondi. Ma è ancora vivo e vegeto.

7) I tuoi romanzi sono stati scritti a non molti anni di distanza l’uno dall’altro. Si tratta di opere molto simili e insieme molto differenti. Le similarità a mio parere vanno ricercate più che altro nelle ambientazioni (il nord-est italiano, la provincia rurale, una forte presenza della natura e, in contrasto, l’elemento umano) e nello stile (essenziale, ma anche molto attento ai dettagli e capace di slanci lirici) la differenza principale, invece, la trovo in una sorta di trasformazione, come dire, un percorso che dal ‘western’ di Savana Padana passa attraverso Bacchiglione blues (romanzo che ha portato alcuni a definirti il Quentin Tarantino italiano) fino ad arrivare a una vera e propria storia di formazione con La pelle dell’orso. Adesso è uscito Apri gli occhi, di cui mi piacerebbe fossi tu a parlarci. È un’analisi in cui ti riconosci?

E’ un’analisi nella quale mi riconosco. A parte Savana Padana e Bacchiglione Blues (quest’ultimo ora sta godendo di un brillante successo in Francia), i quali per molti versi si assomigliano, è vero che tra questi primi due, La pelle dell’orso e Apri gli occhi ci sono notevoli differenze. Storie divergenti fra loro. Trame completamente differenti, personaggi, epoche e ambientazioni dissimili, e diversi, infine, la lingua, il tono e i registri. Dopo il mio esordio con Savana Padana ho avvertito il desiderio di cimentarmi in qualcos’altro, qualcosa che, per così dire, potesse esaltare anche l’altra anima della mia scrittura,  nient’affatto legata al genere noir-pulp, e così è nato La pelle dell’orso. Questo percorso di ricerca mi ha portato poi a scrivere Apri gli occhi. Tuttavia credo sia possibile riscontrare un filo comune che lega non soltanto questi romanzi, ma la mia scrittura in generale. Mi riferisco soprattutto a due aspetti: la forte territorialità e l’asciuttezza della lingua. Per quanto riguarda il primo elemento, credo si tratti di una peculiarità immediatamente riconoscibile. La pianura padana nei primi romanzi e le Dolomiti nei successivi rappresentano  e presentano i miei territori. Per quanto riguarda invece la lingua, sia nel primo che nel secondo romanzo ho operato delle scelte linguistiche che (pur considerando l’enorme differenza di tono, lessico e registro) potessero costituire dei testi rivolti a tutti, per tutti. Si tratta di un elemento caratterizzante tutta la mia opera presente e futura; elemento artisticamente irrinunciabile poiché, come il critico letterario Roberto Carnero ha avuto modo di scrivere sul Domenicale del Sole 24Ore: “La scrittura di Righetto si presta a un duplice livello di lettura: da parte degli adulti come dei ragazzi. Il che è una qualità sempre più rara nella narrativa italiana di oggi”.

8) Hai anche scritto racconti, usciti, come nel caso di Cloudy Water (Akashic Books, NY), in antologie estere. Spesso si fa una distinzione tra scrittori di racconti e scrittori di romanzi. Poi però c’è gente come Hemingway, capace di eccellere in entrambi. Tu ti trovi più a tuo agio in una dimensione rispetto che in un’altra o non fai distinzione?

Gli americani e gli inglesi hanno un termine preciso per definire ciò che noi italiani non sappiamo specificare, arrovellandoci di continuo intorno alla solita domanda: “racconto lungo o romanzo breve?”Ebbene, ciò che noi non riusciamo a nominare, per essi invece ha un nome preciso e questo nome è: “Novella”. Per gli anglosassoni (e per la critica internazionale) la novella è una storia di lunghezza inferiore al novel e superiore alla short story. Ecco, io scrivo Novelle.

9) Torniamo per un attimo alla Scuola Twain e al tuo forte interesse anche per l’insegnamento della scrittura. Una cosa che mi ha sempre colpito è che nelle scuole di molti paesi (soprattutto anglosassoni) ci siano corsi di scrittura creativa o classi in cui si insegna la retorica e l’arte dello scrivere (ad esempio imparare a costruire un discorso che poi andrà recitato in pubblico) mentre da noi (che la retorica e l’oratoria – e quindi in un certo senso anche la scrittura creativa – l’abbiamo inventata) non c’è nulla di tutto ciò. Io ad esempio ho fatto il liceo classico e mi sono laureato in Lettere, ma mi sono reso conto solo alla fine dei miei studi che nessuno mi aveva mai insegnato a scrivere. È un difetto del nostro sistema scolastico o un’esagerazione di quello anglosassone?

E’ chiaramente un difetto della nostra istituzione scolastica, delle nostre politiche scolastiche, dei nostri docenti di lettere in genere (lettori spesso debolissimi)  e del granitico retaggio culturale di cui soffre l’establishment umanistico in Italia. Tuttavia certe cose stanno cambiando, anche grazie a progetti come Scuola Twain e grazie a molti insegnanti che hanno realmente voglia di cambiare una didattica retrograda. Per parte mia, che insegno lettere in un liceo artistico, queste cose provo a farle eccome.

10) Dicci qualcosa di più sul tuo ultimo romanzo, Apri gli occhi, uscito a gennaio con TEA. Il titolo, come spesso accade per i tuoi romanzi, mi piace e mi incuriosisce molto: di chi sono gli occhi che chiedi di aprire?

Lo definisco un romanzo liturgico, poiché la sua struttura e il suo tono accompagnano un viaggio che una coppia divorziata, richiamata da una voce precettiva, sente di dover compiere allo scopo di chiudere un conto aperto con le loro proprie coscienze. I temi trattati sono il senso di colpa, il dolore, il rimorso postumo, la mala educazione dei figli e la trascuratezza totale dei veri bisogni della vita, sostituiti soltanto da inutili ed empi surrogati d’affetto. La solitudine, la forza riparatrice del rito, la superficialità di un diffuso modus vivendi. E, tra tutto questo, la bellezza sublime della montagna. E’ comunque un romanzo d’amore. Non però d’amore coniugale o canonico tra un uomo e una donna, bensì d’amore puro.


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