Diego Conticello: Bartolo Cattafi

Da Narcyso

Scarnificare la vita alla ricerca del vero: L’osso, l’anima

 Con L’osso, l’anima incomincia quella fase di piena maturità della poesia di Bartolo Cattafi che si concluderà solo con la precoce morte. La spinta analogica dei versi diviene talmente complessa da sfociare in una sorta di “astrattismo espressionistico” del tutto sui generis, fatto di ingranaggi inusuali, di accostamenti capaci di una forte folgorazione, di metafore dagli addendi talvolta stranianti, ma limpidi poi negli effetti. Ne risulta una poesia rarefatta ma, allo stesso tempo, concretissima, che scandaglia gli eventi in maniera scrupolosa, come un microscopio farebbe con freddi campioni biologici: la mente è sempre protesa a sondare il nucleo nascosto delle cose, ricercando quel ‘nodulo’ che le rende maligne, inconoscibili, allo scopo di comprenderne non solo le fattezze esteriori ma anche i cancerosi meccanismi interni, che celano la verità a chi le osserva.

D’altronde, come scrive Giovanni Raboni,

[…] non c’è, in Cattafi, trascrizione fedele del dato naturale o empirico che non sia scompaginata, ghiacciata, resa «mostruosa» e traslucida dal soffio dell’astrazione e del mito né, d’altra parte, figurazione così assoluta e puramente mentale da non occupare sulla pagina (e nell’onda di rifrazioni che questa suscita) tutto lo spazio che compete agli oggetti reali.

Ebbe inizio nell’ombra, in un angolo lontano

dai luoghi normalmente frequentati.

Quando la spora attesa, il virus remigando giunse

alla terra promessa, in qualche

approdo del cuore per mettervi le tende.

[…] Si richiese l’aiuto di amuleti,

di formule inutili, d’auguri

finché l’opera pervenne a compimento.

Indi ebbe inizio una nuova attesa.

In questo Inizio la ricerca del vero appare come un’operazione farraginosa, e il poeta ne è consapevole a tal punto da predicare, in alcuni versi, La pazienza generata dalla dolorosa esperienza quotidiana. Non bastano le buone intenzioni per venire a capo della vita, che dispensa ogni giorno la propria dose di ‘sofferenza’.

Dovemmo fare cataloghi

dividere le cose

metterle nel calibro…

[…] I conti non tornavano, le cose

sovente cambiavano colore,

consistenza, sapore, dimensione.

A occhio allora scegliemmo,

a fiuto, fidando dell’istinto.

I risultati non furono migliori.

In ogni caso ci volle sofferenza

la pazienza che logora la polpa

perché l’osso risplenda.

Talvolta però subentra l’ansia di una conoscenza “a qualunque costo”, e allora questi buoni propositi vengono accantonati; il poeta allora aggredisce l’ignoto in cerca di una risposta immediata ed esaustiva. Rileggendo qui Metodologia viene immediato pensare al clima lombardo della cosiddetta “Quarta generazione” di cui faceva parte anche Nelo Risi.

Inutile farla lunga,

girarla, rigirarla

allo spiedo, al rovello

dell’attenta osservazione,

l’analisi, la sintesi,   C’è gente che ci passa la vita

i discorsi sul metodo.     che smania di ferire:

Si muore dalla noia.    dov’è il tallone gridano dov’è il tallone,

C’è un modo d’aggredire la questione:     quasi con metodo

col coltello.   solidi applicati caparbi.

Cattafi si inserisce in questo ristretto milieu poetico in maniera garbata, svettando poi per  consistenza etica e risultati espressivi sugli stessi esponenti milanesi.

In queste poesie scompare progressivamente il ricorso al descrittivismo, lasciando campo aperto ad un procedimento di intellettualizzazione che si focalizza piuttosto sul substrato di ogni ‘particola’ affinché, mostrandone il funzionamento interno, si possa dar conto del fenomeno esteriore. Questo è davvero un passo decisivo per la poetica non solo di questa raccolta ma dell’intera produzione cattafiana. Scemata la consistenza dell’oggetto, se ne perdono solo le qualità fisiche; la poesia ne guadagna in spirito sintetico ma anche in termini di oscurità dei significati. Questo non è necessariamente un difetto, essendo il sintomo della grande potenza iconica che si intende affidare alle cose; esse ora lievitano al grado di emblemi, di puri significanti che trascendono la realtà, motivandola. Non ci troviamo dunque al cospetto di un banale scetticismo ma, come fa capire Paolo Maccari, di fronte ad un «radicalismo esistenziale e intellettuale che, frustrato e rientrato, si traduce in sgomento» (Da qui non puoi).

Da qui non puoi vederlo

devi ancora salire

o scendere gradini:

rotola perduto,

spinto da qualche vento sulla sabbia

sull’acqua trascorsa

della tua clessidra.

Intanto ami, abbracci, ignori

perché di là dal morbido, dal tenero, dal caldo

avverti un’ambigua rigidezza.

Non sai ch’è morto e ignori

l’anima aguzza, d’acciaio,

che ti scruta e attende

il come il quando il dove.

Se un’inclinazione al narrato esiste (come accade in Un 30 agosto), di certo è ancillare rispetto alla scintilla negativa che fa scattare la combustione dei sentimenti, con una cornice quasi sempre antitetica alla cieca mostruosità dell’evento.

Si vide subito che si metteva bene:

eventi macroscopici nessuno,

il sole ad un passo da settembre

diede la prima razione

alle isole di fronte,

il mare mandò lampi di freschezza,

il caldo soltanto fra tre ore,

un immenso celeste, ancora un giorno

per l’uva e gli altri frutti di stagione,

tra i pochi rumori di paese

l’ossigeno sibilando disse

di non farcela più con quel suo cuore.

Di primo mattino la morte di mia madre.

Mai conciliato col proprio lato spirituale, anzi sovrastato da un istinto sempre in lotta col ‘peccato’, Cattafi risente di un pesante senso di colpa che, indomabile e ferino, gli grava addosso (ci riferiamo senz’altro ai versi de La bestia):

E come fai a sapere a prevedere

che se affondi il braccio

in un’acqua di pretto celeste

scatta su dal nulla

con tumulto di bolle l’immonda

bestia che ti azzanna

e per sempre ti avvince il braccio.

Dolcemente golosa del tuo sangue

dovrai nutrirla nasconderla coprirla

con la manica della giacca.

Cedute per un attimo le spesse barriere del pensiero critico, il poeta ritorna fragile creatura che si affida – inerme – nelle mani dell’entità divina (Oggi).

Oggi ignorando tutto

di questo giorno,

se d’Avvento o Passione,

ignorando i colori, le pianete,

m’inginocchio nella tua casa

sotto la tenda che portiamo ovunque

per aprirla per chiuderla a tua offesa,

aprirla ancora, nei boschi

in fuga, su secche, su frangenti,

dal capolinea a un punto della corsa.

Non frugarmi, non chiedere.

Tu sai il perché d’un labbro

che tremando si sporge più dell’altro.

Accoglimi.

Assieme ai pesci guizzanti all’ingrasso

nell’acqua del Giordano

nella tua conca di marmo,

ai due cani

ringhiosi clandestini

che baruffano nell’angolo più buio

della tua navata.

L’io poetico dunque brancola nel buio, talvolta è finanche perseguitato dagli eventi; c’è uno stato di cose che sembra ‘congiurare’ a suo danno. Nel frattempo la sensazione di leggerezza, data dallo schiudersi di un barlume di verità, si rende via via meno percettibile, relegando il poeta in un limbo da cui è pressoché impossibile evadere. Cattafi talvolta ci appare quasi vittima di sé stesso, sperso com’è «nei tetri labirinti della materia»; in Come vanno le cose, tenta allora di riaprire la valvola di questo pensiero critico, nella speranza che ciò gli giovi.

Ti spiattello in faccia

come vanno le cose:

vanno male.

Benché abbia perso lo spirito e la lettera

della fede in quella

sfera che tu conosci,

sono ancora inquieto.

Non mi tornano i conti, le misure, il modo

che ha il mondo di girare.

Ti faccio l’esempio dei consunti

oggetti: i caldi i cogniti

compagni delle nostre stanze

con qualcuno congiurano a mio danno,

mutano volto,

stranieri appena giunti a questa soglia,

allusivi e furbi…

[…] E la foglia caduta

che un giorno colsi col piede e feci mia

s’è staccata,

mi svolazza intorno mi rinfaccia

un corpo pesante

il passo del mio piede.

In tal modo tutta la poetica sottesa a L’osso, l’anima si risolve

[…] in una sorta di astrazione oggettuale simbolica e metafisica, che presuppone l’estenuante lavorìo di composizione, scomposizione e ricomposizione, mediante la scrittura poetica, di un reale deflagrato, per ricavarne, estraendola dai vortici di un mondo ridotto in disordinati frantumi, una scheggia di verità sul senso del grumo di atti e attimi errabondi – l’effimero destino di cometa – in cui si coagula l’avventura esistenziale dell’uomo nella realtà e nella storia.

Avanti, sputa l’osso:

pulito, lucente, levigato,

senza frange di polpa,

l’immagine del vero,

ammettendo che in questo

unico osso avulso dal contesto

allignino chiariti, concentrati,

quesiti fin troppo capitali.

Credo che tu non possa

farcela; saresti

cenere nella fossa,

anima da qualche parte.

Ma sondare dentro il “vero”, alla fine, diventa un atto impossibile alle capacità umane; non solo: affannarsi a trovare la soluzione assoluta è un’operazione effimera, inservibile se poi la verità è sganciata dal contesto delle cose o pretenda di esaurire il reale. Non per questo Cattafi intende rinunciare, anche se un silenzio poetico, durato ben sette anni, lascia intendere che una resa, seppur parziale e provvisoria, è stata avvertita come necessaria, quantomeno per riordinare le idee in vista di una nuova battaglia contro l’inconoscibilità del mondo.

Nella seconda parte del volume Cattafi si fa più introspettivo, quasi a voler allentare la pressione esercitata da questa estenuante ricerca con un idillio, mai però troppo sereno, fatto di suggestioni isolane, di anfratti paesaggistici, seppure tesi a riaffermare il proprio disagio interiore (si vedano a tal proposito le due poesie messe a confronto poco più avanti). Il poeta si avvicina così, a grandi passi, verso quella fase della sua produzione lirica che è stata valutata da molti critici come un ritorno al pittorismo quasi animistico delle prime prove, ovvero L’aria secca del fuoco (non è un caso che, in questa pausa dall’esercizio poetico, Cattafi intraprenda un’altra attività artistica, quale è la pittura, molto affine nello spirito ai motivi conduttori sia di queste ultime sezioni dell’Osso, sia della raccolta appena chiamata in causa).

Dovrei ora parlarvi dell’estate   Non a caso qui cresce

in questo posto   la palma africana

vetrocemento   che sul collo porta

asfalto acciaio   una vecchia criniera

ma l’agosto ha frescure insospettate     di vecchia bestia tigliosa.

luce di mare     E qui le bestie fameliche s’aggirano

tende verdi drizzate sulla costa   sono nell’aria,

qualche uccello sul molo     negli angoli.

(benché di molto qui si sia addentro     Una fame perenne ed un viluppo

nella terra     di membra infocate sulla sabbia

e voi direte che pazze fantasie).     breve sollievo

Finito ch’ebbe il fuoco di smussarsi   attinto alla gola delle prede.

persi i troppi spigoli taglienti     Le stesse donne

riconobbi la vera compagnia     saggiamente s’adeguano

ogni cosa che onoro è appesa al muro    all’ambiente termico

non più in giro    hanno abitudini eccessive

mescolata all’altro.    portano un peso di belle forme

Così si cambia genere di vita    cibo e fonte indicibile di fame.

si ricorda l’estate nell’inverno    Queste sono le regole e le leggi

in una cella spersa nella terra    che tu stesso abbracci:

messinscena col mare     sappi che da gran tempo

con la memoria.     anche tu carnefice

sbatti sul muso dei mostri la tua pelle.

In questo raffronto tra Lettera dall’entroterra e La palma africana emerge un Cattafi molto descrittivo, che imposta il dettato poetico su reiterati ammiccamenti al lettore, per coinvolgerlo in una reverîe quasi infantile, che gioca con la ‘memoria’ – Anabasi – dei luoghi natî.

[…] La mente non capisce questo amore

per certi posti remoti dell’interno,

insidiosi, inospiti,

di barbara bellezza.

Siamo talmente distanti adesso da quella tensione conoscitiva che il poeta si regala persino una deviazione all’interno della sua sfera privata, con un intermezzo erotico poco affine al fil rouge della raccolta. Alcune di queste risonanze, come in Fretta, attraverseranno gli anni per diventare modello di un’estenuata vena amorosa nella poesia del conterraneo, e parimenti milanese d’adozione, Basilio Reale.

Mi domando se sia molto male

che tu mi dica fa’ presto

che non voglia

al di là delle porte della pura

e semplice superficie,

nel profondo,

impegnare la zona tesa all’alto   Scelta una camera orientata a Nord,

la parte vaginale   una mano dominatrice sulla spalla,

così prossima al cuore   non rimane che chiudere la porta.

alla tua anima.   Tirate su le coperte, date il meglio

Da dieci a venti minuti   di voi, controllando il passaggio

per giungere al bollore.     dell’aria nella laringe.

Cattafi è abile come pochi nel costruire versi colla perizia derivata dall’uso finissimo dell’allitterazione, dei sintagmi paronomastici, delle rime al mezzo, strumenti questi sistemati come mattoni che si incastrano alla perfezione, a cui si aggiunge la malta di un pensiero illuminato e illuminante, ma tarlato dall’angoscia esistenziale (La notizia).

[…] Tutto apparve concorde con un giro

centripeto di vortice

un senso precipite d’abisso.

Ne vien fuori una poesia di impeccabile compiutezza fonica e – soprattutto – mentale, sempre intenta a smascherare ogni minima aberrazione con vivido spirito metaforizzante e, dunque, maggiormente efficace poiché sprigiona, grazie a questa potenza simbolica, la massima carica esplicativa.

Senza dubbio Sagoma è un esempio limpido di questa maniera “emblematizzante” di cogliere la sostanza delle cose.

Non me la sono mai passata liscia

vengo da tanti posti

dove sono rimasto

con le dita schiacciate

senza alcuna iattanza ora vi dico

che sono qua

in piena luce

immobile

spalle ad un muro di questa stanza

colore della sagoma preciso

allenato tranquillo

attendo con pazienza

ma ignoro

cosa per voi sia meglio

cuore piedi viso

colpire il centro

una zona di mezzo

pelle di striscio

estrema periferia.

Bartolo Cattafi è poeta mai pago di esporsi, di farsi egli stesso “bersaglio”, di prestare il fianco alle continue frecciate che giungono dal complesso e, talvolta, malevolo ‘arco’ della vita quotidiana eppure, come abbiamo avuto modo di vedere, riesce sempre a contrattaccare grazie ad un’indole critica di rara lucidità caustica.


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