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Diego De Silva, Mia suocera beve: narrativa a quadri

Creato il 02 novembre 2010 da Mdeconca

autoreNon mi pare che il nuovo romanzo di Diego De Silva, Mia suocera beve (Einaudi), sia stato ben interpretato e pesato dalla critica.
Continuazione o meglio approfondimento di Non avevo capito niente, il testo più che essere un romanzo è un caleidoscopio narrativo che trova il centro e la centratura proprio intorno al protagonista, il 44enne avvocato Vincenzo Malinconico.
Giovanni Pacchiano (Il Sole 24 ore, domenica 24 ottobre, p.33) ne dà un ritratto alquanto sciapo, soffermandosi sulla struttura narrativa articolata su un’alternarsi fra capitoli dispari (presente) e capitoli pari (passato). E proprio questo tratto è sottolineato dalle poche critiche on web (vedi Alessia Intervista a De Silva).
Proprio da Alessia riprendo la trama:

suocera beve“Mia suocera beve” è il seguito di “Non avevo capito niente”, tuttavia chi non avesse letto il primo (che vi consiglio fortemente) può tranquillamente approcciare il secondo senza riscontrare tragiche lacune.

Il romanzo è costruito su un doppio binario, a capitoli alternati, l’autore ci presenta da un lato le vicende private e familiari dell’avvocato malinconico e dall’altro una kafkiana opportunità professionale.

Nel binario familiare Malinconico è alle prese con una ex suocera, Assunta detta Ass (don’t traslate please) malata di leucemia, una donna dal pensiero asciutto e dalla comunicazione diretta che di fronte all’ evento della malattia si prende la grande libertà di non voler vedere più sua figlia (l’antipatica psicologa Nives, donna dal pensiero complesso e dalla comunicazione infiocchettata, ex moglie nonchè continuo tormento dell’avvocato Malinconico).

Nel binario professionale ci troviamo di fronte ad un’idea letteraria molto interessante: un processo all’immancabile camorrista, antieroe anche nel precedente “Non avevo capito niente”, che viene processato in diretta televisiva all’interno di un supermercato incatenato al banco dei latticini dall’ing. Romolo Sesti Orfeo. Padre di una vittima casuale della camorra, che per pianificare il momento della giustizia in modalità reality si fa assumere dal supermercato per progettare l’impianto di video sorveglianza.

A Malinconico, che si trova nel supermercato alla ricerca del Fior di pesto Buitoni, ovviamente l’ingrato compito di assolvere al suo ruolo di avvocato “mediatico” e di prendere dunque parte alla più esasperata versione di reality, genere tanto caro ad una vasta fetta di pubblico televisivo italiano.

La struttura alternata, che in Italo Calvino (Se una sera d’inverno un viaggiatore) e in Vincenzo Consoli (Retablo) ha nobili predecessori nella tradizione novecentesca, è in realtà un espediente limitato ad una parte del romanzo, un buon due terzi; per il resto -uscito dal supermercato- tutta la vicenda si stringe su Vincenzo e sui suoi dilemmi esistenziali, ricalcando -ma forse è solo un’impressione- gli stilemi di Salvo Montalbano (fidanzata assente, ma presente; angelo custode come il secondo io a cui riferirsi durante le riflessioni personali), creatura di Andra Camilleri.

De Silva non riesce a sostenere il peso di una trama unica e allora si affida ad un puzzle di racconti: ciascun capitolo è infatti un microcosmo a sé nel quale di volta in volta sono snocciolate vicende differeti il cui sviluppo contribuisce a delineare i tratti del protagonista principale.
Un po’ come Luis Sepulveda, De Silva rinuncia ad una rappresentazione omnicomprensiva per poter tracciare -secondo un sistema monadico- la vicende differenti quando coerenti di un antieroe dei nostri giorni.
Non a caso i capitoli più belli, forse più eticamente e letteralmente seri, sono quelli legati a due canzoni (Diario – Equipe84; Se bruciasse la città, Massimo Ranieri), colonne sonore differenti di momenti distanti nella crescita del personaggio principale. E’ la rinuncia ad una ragione unica che possa spiegare tutto e l’inzio di una metafisica dell’accidente (“Il mondo è tutto ciò che accade”, L. Wittgenstein ???) come momento fondante in cui siamo messi alla prova. Le due canzoni sono vivisezionate e adattate, ma anche criticate in modo puntuale insieme al momento stesso in cui sono state scritte.

Mia suocera beve è dunque un romanzo puzzle coerente con la letteratura più relativista degli ultimi anni, dalla scrittura dissacrante e linguisticamente piena, in cui anche il fatto linguistico assume un valore etico-etimologico pregnante; è un romanzo in cui tutta la realtà, con comico e grottesco senso dell’imitazione [sono parodiate con perfetto stile mimetico le pagine dei giornali in cui compaiono le gesta di Malinconico con una sapienza ed una fine attenzione al particolare; così come è definitivamente dissacrato il reality ed il talk show all'insegna dell'adagio sic transit gloria mundi], ritorna quasi con finalità catartiche.
Malinconico alla fine è un antieroe credibile, frutto di una maturazione linguistica e narrativa di un autore che ha abbandonato il neorealismo eroico e veramente malinconico di Certi bambini, a favore di una visione più disincantata e quindi relativistica del senso di giustizia, alla fine riassunto nella ricerca di sopravvivenza dignitosa del protagonista.

Da leggere con leggerezza, ovvero con un animo predisposto alla riflessione interiore.


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