La fama è appunto il linguaggio che spiega il malessere dietro le quinte, dietro quei candelabri che accecano già senza essere accesi e la cui fiamma conta ben poco. La fama spiega ricchezza e il successo, spiega l'accondiscendenza almeno discutibile della sua corte, la felicità sempre a carissimo prezzo della sua carne, la prigione dorata dove chiude se stesso e il suo cicisbeo di turno. Fama e consenso davanti ai candelbri e dietro, dietro le quinte, dietro lo sfarzo irragionevole: fama e consenso di un'ostentazione reticente, in accordo con la pruderie di un'America puritana e perbenista.
Annidato in un lusso da incubo, da dissipare quasi con dispetto, Liberace divora i suoi uomini, Billy (Cheyenne Jackson), soprattutto Scott (un convincente Matt Damon), poi Cary (Boyd Holbrook) e chissà quanti altri, mentendo a tutti su se stesso. Divorato dalla sua età, corre a restaurarsi dal Dr. Jack Startz (Rob Lowe), cambiando i connotati dell'apparenza, perché tutto risplenda come risplende lui, Liberace. La sua vita non è neanche vuota, gli è aliena, è una vita qualunque, più sprecata che goduta: l'invidiabile tuffo nel vuoto, l'angosciante brama del piacere a tutti i costi, poiché il costo non conta.
Dietro i candelabri è un tuffo in un mondo remoto, sepolto forse in album archiviati di un'esistenza che si fatica a immaginare oggi. Il film di Steven Soderbergh - scritto da Richard LaGravenese - ha il respiro corto: è un po' ripetitivo e soffre insieme di una lungaggine eccessiva e di un montaggio a singhiozzo, così che si appesantisce lo spettatore senza alcun beneficio nel suo tentativo di disegnare un'era della cultura popolare americana o personaggi che hanno avuto un peso reale in questa storia. Dietro i candelabri, nonostante ottimi protagonisti, lascia l'amaro in bocca e tanta stanchezza da smaltire.