C’è una scuola che non ho mai dimenticato. È il liceo da cui mi sono ritirato a metà anno scolastico in terza, dopo aver prolungato a sproposito l’agonia della scuola superiore sbagliata, un decorso che solo un’eccessiva indulgenza verso me stesso mi ha impedito di riconoscere prima e che solo alla prima occasione che ha trasformato il fastidio in insofferenza mi ha fatto esplodere, un po’ come la mentina del signor Creosote. Colpa di genitori poco pronti a prendere le misure delle nuove complessità? Vi saprò dire quando mia figlia avrà 15 anni. Di certo si tratta di un punto centrale della mia vita se ancora oggi ho gli incubi di quella maturità mai data, e poi mi sveglio in stato di agitazione e mi ricordo di aver terminato gli studi già da un pezzo. Tsk.
Ma, se devo dire la verità, non ho mai dimenticato quella scuola per un altro motivo. In quella stessa scuola, più precisamente in segreteria, ha lavorato mia mamma per trentacinque anni. È entrata nel 65, quindi abbondantemente prima dell’office automation. Anzi, mia mamma ha messo le mani su un videoterminale solo alla fine della sua carriera. Prima ci sono stati almeno due decenni di macchine da scrivere e di registri e cartelloni con i risultati compilati a mano. Tanto che sapeva a memoria nomi e cognomi delle migliaia di studenti passati da quella scuola, e ancora adesso, a chi le si presenta, è in grado di dire se ha fatto il liceo, in alcuni casi addirittura in quali anni. Per non parlare di professori e personale non docente.
Per farla breve, capitava che mia mamma mi portasse con sé al lavoro quando aveva i rientri pomeridiani, ero piccolo o anche no, ma non era possibile lasciarmi solo in casa. Per me era una vera e propria festa, in tutti i casi. Se quel pomeriggio c’erano lezioni, o prof in giro o bidelli, stavo in una delle scrivanie del suo ufficio a fare i compiti, a giocare con la macchina da scrivere elettrica, a stampare timbri della provincia o datari su fogli. Quando non mi vedeva, tentavo di sbirciare negli archivi, guardando a caso documenti riservati, pagelle, compiti in classe, anche se per me era tutto arabo, Poi i colleghi mi tenevano compagna, fino a quando mia mamma prendeva il cartellino, timbrava e mi riaccompagnava a casa.
Anni dopo costruirono un’ala nuova di quel liceo, con un bellissima palestra nuova di zecca. Io ero appena approdato alle scuole medie e avevo iniziato a giocare a basket. Il bidello assegnato alla palestra era molto in confidenza con mia mamma, quindi i pomeriggi al liceo cambiarono completamente fisionomia. Mi portavo il mio pallone, il bidello mi apriva la palestra bella pulita e, a patto che indossassi scarpe adatte, potevo stare lì anche tutto il pomeriggio, ad allenarmi e fare tiri a canestro. Malgrado ciò non sono mai diventato bravo, ma vi assicuro che mi sono divertito davvero un sacco.
Passata la stagione della pallacanestro, in terza media o giù di lì, si presentò il problema di scegliere la scuola a cui iscrivermi. Il mio migliore amico aveva intenzione di andare al classico e io volevo seguirlo. Poi però non so come è andata, sta di fatto che commisi l’errore e scelsi lo scientifico. E la cosa ridicola è che anche il mio migliore amico decise di seguirmi di là, e anche per lui non fu così semplice arrivare fino in quinta. Ma questo è un altro post. Sta di fatto che nei mesi che precedettero l’inizio delle scuole superiori, presi ad accompagnare mia mamma, non appena potevo, al lavoro. Lei si metteva come al solito alla sua scrivania, e io partivo nei miei tour di esplorazione lungo quella enorme scuola da solo. Volevo domare il drago, mi dicevo, farlo finché fosse appisolato prima del grande risveglio, con tutti quei minuscoli bipedi che gli avrebbero fatto il solletico entrando nella sua capiente pancia molle. Dovevo conoscere il nemico, arrivare preparato all’impatto con la vita da adulto, partire con un vantaggio che mi facesse percepire come meno imbranato. Se hai il controllo logistico hai il potere, no? Così salivo e scendevo per i tre piani, entravo nelle classi, leggevo le sconcezze scritte sotto i banchi, sentivo gli odori degli arredi e qualche aura di presenza umana rimasta chissà perché. Scrivevo titoli di canzoni sulle lavagne (poi li cancellavo, eh), sbirciavo nel laboratorio di lingue i titoli dei dischi delle lezioni di inglese e francese. Mi sedevo nelle aule vuote a osservare la lavagna, nel silenzio più assoluto, qualche clacson ma poca roba, fuori le giornate già corte, e pensavo a quello che sarebbe stato di me, da lì a poco.