1. L’articolo di Stratfor sui rapporti tra Usa e Polonia deve essere letto in “controluce”, non adeguandosi a quanto viene detto così alla lettera. Ne risulta allora meglio la differenza tra le strategie statunitensi da noi designate (per brutta abitudine, tuttavia per semplificarsi i discorsi) con i nomi dei Presidenti; in tal caso Bush (jr. in particolare) e Obama. In realtà, tali differenziazioni, relative a particolari congiunture o ad intere fasi storiche, sono sempre esistite. Si pensi ai contrasti intorno al Vietnam, a quel tempo uno dei punti rilevanti del conflitto tra i due campi (capitalista e “socialista”) con risvolti all’interno di ognuno dei due: ad es., gli Usa dettero una mano ai vietnamiti per espellere la Francia dall’Indocina, nella prima metà degli anni ’50, allo scopo di sostituirla in quell’area; Urss e Cina, apparentemente alleate nell’aiuto ai vietnamiti del nord e ai vietcong, erano ormai in contrasto via via più acuto dall’inizio degli anni ‘60.
Le diverse strategie si affermano di volta in volta, con continui compromessi tra esse, non raramente rotti in modo drammatico (perfino con uccisione o destituzione di presidenti: Kennedy, Nixon), di solito senza la totale e definitiva soppressione di una di quelle in contrasto; semmai con spostamenti d’accento che mutano il terreno e l’ambito del confronto (e scontro). Nella fase attuale, il contrasto negli Stati Uniti sembra vertere sull’approccio strategico al conflitto (al momento sempre sordo, indiretto, mai basato su una vera e propria guerra tra i contendenti) nell’area europea e in quella nordafricana fino al Medioriente e Turchia, Iran, ecc. La strategia applicata prevalentemente durante la presidenza Bush (salvo che negli ultimi due anni, in cui andò gradualmente modificandosi) esigeva un più attento, e più scoperto, contenimento della Russia. Il che non significava l’impossibilità di “affari” con i russi, affari però sotto “osservazione” e talvolta tendenzialmente ostacolati come quelli tra Gazprom ed Eni (e altre imprese europee dell’energia); vi erano tuttavia alcune contropartite russe in merito alla “lotta al terrorismo” (almeno in un primo tempo) e comunque con il consentito transito di materiale bellico verso l’Afghanistan, che mi sembra duri tuttora.
Il contenimento della Russia non era però il solo obiettivo, e non era appunto privo di “elasticità” (nel contempo contraddetta dalla rigidità di altre mosse) in dati contesti. Importante appariva pure il mantenimento di regimi fedeli in tutta l’area nordafricana e si procedeva all’aggressione aperta (pur se in più tappe) nei confronti di chi era meno allineato come ad un certo punto lo fu l’Irak, pur se molti interrogativi suscita l’atteggiamento Usa verso tale paese che, in precedenza, era servito da “sicario” nell’aggressione all’Iran. Inutile comunque andare per il sottile; è impossibile seguire tutte le giravolte delle strategie poste in atto dalle potenze e soprattutto dalla più forte d’esse. Resta il fatto che anche gli accordi missilistici tra Usa e Polonia sembrano essere stati stretti in base a questo più diretto e pervasivo intervento in tutta l’area (europea), che si ritiene di pertinenza esclusiva della potenza americana e quindi preclusa a possibili “concorrenti” (nel medio e lungo periodo), senza tuttavia chiudersi nei loro confronti, come già detto, al business (che peraltro non aveva valenza puramente economica).
Una simile strategia sembra essere stata contestata da chi la riteneva alla lunga fallimentare perché troppo rigida; ed è allora passata un’altra linea – da potersi solo parzialmente considerare quella classica del divide et impera – applicata innanzitutto, quasi a guisa di esperimento, in Irak quando fu nominato comandante delle truppe americane il gen. Petraeus. In realtà, anche per il fatto che l’altra strategia non è scomparsa (e mi sembra se ne facciano portatori gli ambienti cui è vicina la rivista Stratfor), le mosse della nuova non sono massimamente chiare seppure individuabili a grandi tratti. Ad es., l’attuale rottura che si sta verificando – almeno così ci viene intanto detto, ma è probabile sia raccontato l’effettivo andamento degli eventi – tra i Fratelli musulmani e i Salafiti (immagino si intenda con questa dizione comprendere tutti i musulmani più radicali) appare effetto (ricercato) della strategia in questione.
Minore rigidità, manovre più “avvolgenti”, messa in moto di percorsi (da me detti “liquidi”) non strettamente incanalati – poiché la canalizzazione appare problematica e può semplicemente condurre all’incontro di una barriera di difficile superamento se la si investe semplicemente con un “masso” – da seguire passo passo cercando di correggerne via via la direzionalità, facendola spesso ramificare onde aggirare l’ostacolo (questo è appunto il comportamento di un liquido). Nei confronti della stessa Russia, in particolare nell’area europea, si procede con cautela. Ed è quindi probabile che si sia in tale contesto manifestata la scontentezza dei polacchi per quanto sembra ad essi un passo indietro (in realtà penso soltanto “di lato” e, almeno parzialmente, di “attesa”) degli Stati Uniti.
La strategia più rigida verso la Russia avrebbe potuto aprire, non nel breve periodo, qualche contrasto tra alcuni paesi europei sviluppati e con più robusta struttura economico-sociale – in specie la Germania – e la potenza d’oltreatlantico; anche perché tale paese europeo valuta, o comunque dovrà sempre più valutare, l’importanza di un allargamento della sua possibile sfera influenza verso l’est europeo. Per il momento, quest’ultima è al massimo soltanto economica, ma l’economia non basta per la stabilità delle correnti d’influenza di un paese verso altri; e se quella politica non s’instaura mai, i rischi di passi indietro complessivi sono notevoli. La UE è nata in definitiva sotto l’egida, e quasi continuazione, dell’opera compiuta ben prima tramite la Nato. Nel senso che il sedicente europeismo è stato sempre ampiamente sfruttato da tutti i settori politici ed economici della nostra area favorevoli al predominio statunitense e al legame stretto tra i sistemi complessivamente definiti “occidentali” (compreso il Giappone); con la complementarietà delle strutture economiche, la fine di quel po’ di autonomia francese (mantenuta durante il gollismo), il divenire dell’Inghilterra quasi uno Stato dell’Unione, il tracollo del regime italiano all’epoca di “mani pulite”, ecc. Anche dal punto di vista ideologico, l’affermarsi del più becero liberismo, seguito dal ridimensionamento dello Stato sociale (del capitalismo detto renano), è frutto del medesimo processo (di lunga durata).
2. Per un dato periodo di tempo – fin quando, dopo il crollo del “socialismo” est-europeo e dell’Urss, gli Usa hanno creduto al loro sostanziale monocentrismo – l’europeismo, uno dei cui frutti è stata la creazione della zona dell’euro, è convissuto in relativa tranquillità, diciamo mediante contrasti sempre componibili, con qualche autonomia dei singoli Stati. Oggi, stiamo semmai andando verso il multipolarismo e il policentrismo; un processo ancora incerto, non univoco, caratterizzato insomma da una sorta di andamento a zig fag (o sinusoidale), in ogni caso tale per cui si nota al momento l’affievolirsi del controllo statunitense dei processi economici e politici globali. La stessa crisi iniziata nel 2008, malgrado gli economisti e i vari tecnici del ramo non vogliano prenderne atto, è del tipo di quella di fine ‘800, con lo scoordinamento del sistema in precedenza caratterizzato dal bipolarismo e soprattutto dalla presenza di un centro relativamente regolatore (gli Stati Uniti appunto) nel campo “occidentale” a capitalismo avanzato.
Data la natura della presente fase, un’eccessiva rigidità della politica estera americana potrebbe favorire, non nell’immediato (le vere strategie pensano d’altronde ai lunghi periodi), la nascita di componenti politiche interessate ad una maggiore autonomia in qualche paese fra i più forti d’Europa (in definitiva la Germania, al massimo pure la Francia). Se s’innescasse un simile processo, diverrebbe probabile il suo orientamento verso est e la possibilità di alleanze tra i suddetti paesi europei e la Russia. In definitiva, la zona est-europea potrebbe trovarsi stretta a tenaglia; ed è forse anche per tale timore che la Polonia manifesta malcontento nei confronti del sospettato “distacco” statunitense dalla prospettiva di più aperto predominio in Europa con la chiusura di ogni canale in direzione russa. In realtà, non credo proprio sussista il pericolo di tale “distacco”; semplicemente, riconoscendo la più complessa configurazione degli attuali rapporti di forza, gli Usa mirano a creare zizzania in Europa di modo che i vari Stati impieghino la residua autonomia – rispetto agli organismi UE, in primo luogo la BCE affidata l’anno scorso ad un fedele esecutore degli ordini statunitensi, pur con i dovuti mascheramenti di apparente autonomia necessari a meglio rispettarli – per criticarsi e ostacolarsi fra loro.
Qua e là nei paesi europei sembrano nascere confusi, poco articolati e malamente collegati, gruppi di critica al tipo di europeismo portato avanti dai presunti “padri dell’Europa”, succubi degli Usa, seguaci del peggiore “azionismo” preteso antifascista, cupi esaltatori di chi ci avrebbe “liberato” dalla tirannide; opportunisti che, appena finita la guerra, si diedero al più vieto anticomunismo per la difesa del “mondo libero” e della “democrazia”, ecc. I critici di tale falso europeismo, talvolta perfino fautori dell’uscita dall’euro, non sempre sono personaggi di limpido atteggiamento. Per decidere se sono reali “sovranisti” è indispensabile individuare l’obiettivo principe della loro polemica. Si noterà che troppo spesso alimentano appunto la zizzania tra paesi europei; il loro spirito di autonomia si esercita soprattutto contro alcuni di essi, in particolare la Germania.
Quest’ultima non ha una politica chiaramente nazionale, anch’essa è nei fatti prona agli ordini americani; e non basta il suo astenersi dall’aggressione alla Libia per renderla un punto di forza a favore di una reale sovranità. Il problema quindi non è di diventare adesso filo-tedeschi, il che sarebbe soltanto sciocco. Tuttavia, la cartina di tornasole è comunque l’atteggiamento nei confronti degli Usa. Soprattutto, oggi, verso quelli della neostrategia di cui abbiamo testé parlato. Sia chiaro, non è certo il caso di divenire fan di Bush; semplicemente notiamo che la rigidità della precedente strategia statunitense meglio si prestava ad un suo smascheramento. Facile era strillare contro la politica di aggressione all’Irak e all’Afghanistan, contro l’opposizione netta e totale all’islamismo trattato per intero da complice del “terrorismo” (il cui presunto capo se ne stava tranquillo vicino ad Islamabad credendosi protetto dal suo essere presentato quale “nemico pubblico n. 1”). Facile era dare sfogo al proprio odio contro Israele (che alcuni fessi ritenevano addirittura l’ispiratore della politica americana; proprio “la coda che muove il cane”) e schierarsi per i poveri palestinesi, tutti in blocco considerati “i diseredati”, i “martiri” e per ciò stesso gli “eroi” della “lotta antimperialista”.
Un’orgia d’imbecillità, tipica dei rimasugli di un fallimento storico mai riflettuto e tanto meno metabolizzato. E se ne è visto il risultato: la maggior parte di questi fessi, molti anche farabutti, ha pienamente appoggiato le “primavere arabe”, perspicuo punto d’innesco della neostrategia statunitense. Comunque, costoro sono solo avanzi di una cattiva digestione. Più importanti sono alcuni settori di dominanti, e dei loro politici e ideologi, che sfruttano la situazione dando sfogo a finti sentimenti di autonomia, inveendo contro l’europeismo coatto della vecchia impostazione della UE (per certi versi assimilabile ad un prolungamento della Nato). Essi si scagliano contro tale organismo; alcuni, come già detto, arrivano a chiedere l’uscita dall’euro. Qualcuno (pochi) si perita di nominare in senso critico Obama per la sua politica di divisione – che non appare del tutto fallimentare, almeno al momento – del mondo arabo e di quello musulmano. Tuttavia, poi, se la prende in modo speciale con altri paesi europei, in particolare appunto con la Germania.
3. Ritengo pericoloso seguire simili ambienti falsamente sovranisti, nient’affatto autonomi invece. Qui non si tratta di giocare agli anti-americani in nome delle vecchie fisime antimperialiste, che mai sono riuscite a tenere conto della realtà di quello che fu l’imperialismo nella sua vera epoca a cavallo tra XIX e XX secolo; ed è proprio per evitare di restare inchiodati alla stantia identificazione dell’imperialismo con il (neo)colonialismo – impostazione già criticata da Lenin, il quale però cadde nella tesi dell’ultimo stadio dello sviluppo capitalistico, non potendo allora capire la sola fine del capitalismo borghese, non della formazione sociale del capitale – che ho proposto il termine policentrismo; oltre a criticare l’attribuzione di un immaginario carattere di “liberazione dallo sfruttamento imperialista” alla lotta di alcune parti della popolazione mondiale (in aree ancora sottosviluppate capitalisticamente), dirette da nuovi e agguerriti gruppi dominanti emergenti, contro il più forte paese predominante, dove alcuni centri strategici si stanno ponendo il problema di utilizzare ai loro scopi tale processo conflittuale, pur scontando periodici e temporanei tumulti e rivolte contro di loro (vedi ultimi avvenimenti in Libia).
Quello che conta nella fase storica attuale – come già a cavallo tra otto e novecento – è l’affermarsi o meno del policentrismo, che implica un conflitto tra dominanti; non semplicemente nella formazione sociale capitalistica in generale, bensì in quanto urto tra alcuni paesi capitalistici (le potenze), la cui politica – affidata agli Stati, per nulla affatto in deperimento come sostenuto da affabulatori imbroglioni – è la risultante, di volta in volta cangiante per diverse congiunture o fasi, del conflitto tra gruppi dominanti interni; tipico appunto ciò che si sta verificando negli Usa, il paese preminente centrale e quindi vero laboratorio dello scontro intestino tra le diverse strategie promosse dai gruppi dominanti in oggetto.
In altra sede tenterò di analizzare i fondamentali tre tipi di “guerre” (conflitti in genere, non sempre sfocianti in eventi bellici) tra loro articolantesi, con diversa rilevanza, nelle differenti fasi storiche: “guerre” tra dominanti (in specie tra le potenze, la cui politica è il risultato dello scontro tra vari gruppi dominanti interni), “guerre coloniali”, dove per coloniale in senso lato si intende la sfera d’influenza (anche l’Italia è “colonia” nei confronti degli Stati Uniti), “guerre di classe”, come si diceva un tempo, in realtà conflitti tra i gruppi dominanti e quelli che ne contestano la supremazia decisionale o vogliono almeno appropriarsi di maggiori quote del reddito prodotto o, nei casi più radicali, intendono abbattere il predominio di date minoranze.
Nella fase attuale, sembra debole il terzo tipo di “guerra”, in specie nei paesi ad alto sviluppo capitalistico, dove fra l’altro è venuta da molto tempo meno quella decantazione e differenziazione del Terzo Stato da cui è derivato il lungo scontro tra borghesia e proletariato. La fine di questa lotta ha ormai una storia secolare, ben lungi dall’essere stata pensata e scritta in modo da consentire la comprensione del fallimento della sedicente transizione al socialismo e comunismo, vissuta per troppo tempo come reale. Per il momento sta salendo viepiù alla ribalta il conflitto tra potenze – pur se una è ancora nettamente in vantaggio – con il corteggio di frizioni tra i diversi gruppi dominanti nella formazione capitalistica e con tutta una serie di manovre per le sfere d’influenza. In questo contesto, sono oggi in piena attività gli Stati Uniti con la loro strategia mirante a creare forti disordini e divisioni nell’area europea, in cui si concentrano le maggiori subpotenze di detta formazione sociale, pienamente diffusa nel globo dopo la fine dell’illusorio “socialismo”.
Tenuto conto di quanto fin qui sostenuto, e come conclusione provvisoria, è necessario essere chiari su alcune questioni fondamentali. Intanto, va privilegiato lo scontro tra dominanti come foriero dei più incisivi cambiamenti della fase. Tenendo fermi due fondamentali punti: a) nessuna concessione al vecchio nazionalismo e al mero concetto di Patria, tanto meno all’idea di superiorità di un qualche popolo o di una qualche cultura, ecc.; b) deve essere favorito l’affermarsi di un’epoca policentrica – ben sapendo di quali pericoli e disordini (sociali, politici, economici) sia densa – senza concessioni alla “guerra” tra subdominanti e tra subpotenze, “guerra” utilissima al mantenimento del predominio degli Usa, che non a caso la promuovono tramite la loro neostrategia.
Altra questione decisiva è l’abbandono dell’appoggio indiscriminato ad una qualsivoglia lotta che appaia – o venga presentata da farabutti al servizio di chi ha interesse a simile opera di diversione – quale “guerra di classe”, scontro tra dominanti e dominati, tra capitale e lavoro o tra sfruttatori imperialisti e sfruttati delle aree capitalisticamente poco sviluppate. Simili conflitti vanno valutati attentamente e subordinati a quello tra dominanti (e tra potenze), quindi appoggiati o contrastati secondo questa precisa impostazione. Entriamo in un’epoca caratterizzata da lotte dure, forse punteggiata da tragedie, comunque da eventi assai dolorosi, che non ci lasceranno indifferenti; dovremo tuttavia smetterla di essere soltanto pietosi. C’è una gran massa di mascalzoni e imbroglioni in azione; come sempre del resto, in epoche di accentuato scontro tra dominanti, che cercano di distogliere l’attenzione dal problema cruciale dell’epoca. E’ necessario promuovere il policentrismo. Solo una lotta sempre più acuta tra questi dominanti, come avevano capito Lenin e Mao, può scardinare le loro strutture di potere e aprire varchi a effettivamente radicali mutamenti storici, che non sembrano però all’ordine del giorno.