Il Reuters Institute for the Study of Journalism ha rilasciato i risultati della quarta edizione del suo studio annuale “Digital News Report”, studio sulle abitudini di consumo dell’informazione online/digitale in 12 nazioni, Italia compresa, basato su 20mila interviste ad altrettanti consumatori di notizie online e focus group condotti online ed integrato con i contributi di autorità del settore quali Emily Bell.
Lo studio, condotto tra gennaio e febbraio di quest’anno, prende in considerazione solamente coloro che consumano informazione e che hanno accesso ad internet. Per quanto riguarda specificatamente il nostro Paese si tratta della nazione con la minor penetrazione della Rete tra le dieci prese in considerazione come mostra la sezione dedicata alla metodologia della ricerca. È esclusa quindi poco meno della metà della popolazione italiana.
Il rapporto si compone di 112 pagine. Come di abitudine, se il tema vi interessa, che sia a titolo personale o professionale, consiglio caldamente la lettura integrale dello studio al di là della mia personale sintesi ed interpretazione. Se siete di fretta invece, potete leggere la scheda di sintesi con focus al sistema mediatico dell’Italia e guardare il video sottostante che sintetizza in meno di due minuti i risultati principali a livello globale.
In 6 dei 12 Paesi presi in considerazione dallo studio il consumo d’informazione online, inclusivo dei social, supera quello televisivo. Così non è per quanto riguarda l’Italia dove invece la televisione regna sovrana. Il grafico sottostante riporta il dettaglio di ciascuna nazione. Si tratta dell’ennesima evidenza, se necessario, che rifarsi ad esperienze internazionali non sempre funziona viste le profonde differenze.
L’Italia una delle nazioni con il più basso indice di fiducia sull’informazione con solo il 35% delle persone che rispondono positivamente alla domanda “I think you can trust most news most of the time”.
È confermato ampiamente l’utilizzo dei social come fonte dalla quale apprendere le notizie. Sono ovviamente Facebook e Twitter i due principali social con il primo — con un’audience molto ampia e generalista — che viene usato prevalentemente per altri scopi, a cominciare dal relazionarsi con amici/conoscenti, ed il secondo che invece è utilizzato da un pubblico più specializzato alla ricerca degli ultimi sviluppi, delle novità, anche in campo informativo.
In crescita anche l’utilizzo di WhatsApp con l’Italia al terzo posto su 12 per l’utilizzo dell’applicazione di messaggistica istantanea per ricevere notizie. In crescita anche la fruizione di video come fonte d’informazione sia in generale che in specifico riferimento al nostro Paese.
Le notizie sono sempre più unbranded e la search ed i social divengono prepotentemente la porta d’ingresso ai siti web delle testate. In Italia la search è la fonte di accesso alle notizie per il 66% dei rispondenti [ancora convinti di voler fare la “guerra santa” a Google?], i social il 33%, mentre l’accesso diretto ai newsbrand è praticato solo da un quinto delle persone.
Le notizie unbranded, senza marca distintiva, sono la derivata di una politica scellerata di gestione della marca con online che ha caratteristiche complessivamente non congrue con quelle dell’omologa versione cartacea; in particolare in Italia dove sono nette le differenze. Per un pugno di click si svende la marca.
Come emerge distintamente dai dati Audiweb, il rapporto conferma che i legacy media prevalgono su digital born. In Italia alla domanda su quale fonte d’informazione online sia stata utilizzata nell’ultima settimana il 79% cita una testata tradizionale e il 51% invece una all digital. Tra i global newsbrand nativi digitali Yahoo, MSN e HuffPost sono i più citati ma restano comunque relativamente marginali, sempre al di sotto del 10% dei rispondenti.
L’infografica sotto riportata riassume quali sono i newsbrand italiani, online e offline, con la maggior penetrazione a livello di utilizzo settimanale.
Il Reuters Institute for the Study of Journalism segmenta coloro che fruiscono d’informazione online in tre tipologie: i “casual users”, coloro che accedono all’informazione una volta al giorno o meno, che pesano il 34% del totale, i “daily briefers”, che come dice il nome accedono quotidianamente all’informazione una o più volte nel corso della giornata e pesano il 45%, e i “news lovers”, persone che accedono all’informazione 5 o più volte nel corso della giornata e rappresentano il 21% del totale. In Italia i “news lovers” sono il 17% e i “casual users” il 10%.
La fruizione delle notizie si spalma abbastanza uniformemente nell’arco della giornata con picchi alla mattina presto ed in prima serata. L’accesso avviene prevalentemente da casa, a prescindere dal device utilizzato, circa un quarto lo fa dal lavoro e una parte marginale invece mentre è in movimento.
Le notizie nazionali, seguite da quelle internazionali e locali, sono al primo posto degli interessi per tipologia d’informazione in 10 nazioni su 12, italia inclusa.
Nel nostro Paese il 51% degli intervistati afferma di aver pagato, di aver acquistato un giornale di carta. Percentuale che scende al 12% per quanto riguarda le news online/in formato digitale. Teoricamente l’Italia, dopo Danimarca e Finlandia, è la nazione con la maggior propensione al pagamento delle notizie; vedendo le percentuali, nettamente inferiori, delle altre nazioni si capisce quanto necessaria sia un abbondante taratura tra dichiarato e realizzato. In caso di dubbi basti vedere l’andamento effettivo delle vendite di copie digitali. La stragrande maggioranza di coloro che pagano per le news online/digital, acquista “one shot” [63%]. Ulteriore elemento di riflessione come ho già avuto modo di sottolineare.
L’Italia è tra le nazioni in cui le persone hanno una maggiore propensione ad utilizzare i social per la fruizione d’informazione. I milioni di fan alle pagine delle diverse testate, per come vengono gestiti, non servono ad altro che ad alimentare i ricavi di Zuckerberg & Co. Basti vedere, in assenza di altri dati o di utilizzo di piattaforme specifiche di monitoraggio, il rapporto tra numero di fan, pur con tutte le tarature sulla reach effettiva, e gli accessi complessivi al sito web corrispondente della testata o, peggio, la vendita di copie cartacee, per verificare quanto labile sia la relazione.
Il rapporto chiarisce come a fronte di un incremento dell’uso dei social come punto di scoperta della notizie non vi sia invece un incremento nella partecipazione. I social sono più un filtro di selezione che non una fonte d’informazione. Le notizie si condividono e si commentano ancora oggi “face-to-face”.
Credo che vada completamente rivisto, ribaltato l’approccio. È meglio avere centinaia di migliaia di persone delle quali non si sa nulla, che non leggono e che commentano a caso e fuori luogo o è meglio ridurre la quantità e stabilire una relazione, creare engagement con coloro che interessano?
Personalmente non credo possano esserci dubbi sul preferire la seconda scelta. Per un’ecologia dei social media iniziate, iniziamo, ad abbattere la fan base ed a capire cosa interessa ai nostri lettori, a misurare più il click trough che altri parametri, a relazionarci con loro, come ho già avuto modo di dire.