Dimentica il mio nome: il rischio di essere Zerocalcare

Creato il 29 ottobre 2014 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

Da sinistra: copertina regolare e variant cover a firma di Gipi di “Dimentica il mio nome”

Zerocalcare ha alcuni talenti innegabili. È sintonizzato con la sensibilità di questi anni, in modo non furbo, ma istintivo e diretto. Ha un innato senso della battuta, che gestisce attraverso un ritmo efficace testo/disegno. Ha la capacità di raccontare su diversi piani di lettura contemporaneamente, uno più immediato, facile e uno più sofisticato.
Ma soprattutto, l’autore romano ha una storia di vita personale semplice, normale, con i suoi normali drammi e i suoi normali misteri biografici ed esistenziali, che sa rappresentare e condividere con i suoi lettori, abbattendo velocemente barriere, favorendo identificazione ed empatia.
Sono questi gli elementi principali che hanno permesso il successo ormai noto delle sue precedenti pubblicazioni. Un successo che, è bene dirlo chiaramente, non è né immotivato né strano, non fosse che parliamo dello strano mondo del fumetto. Insomma, Zerocalcare non è un bluff, ma un talento che ha trovato il suo pubblico al momento giusto.

Dimentica il mio nome è il quinto libro dell’autore, pubblicato come i precedenti dalla Bao Publishing. Una storia autobiografica semplice, lineare ma con alcune inattese derive fantastiche.
Complessivamente lo si ritrova, Zerocalcare, laddove l’avevamo lasciato. Lo stile, il ritmo, l’approccio alla narrazione non cambiano. A differenza di Un polpo alla gola, anche in Dimentica il mio nome la narrazione procede per microepisodi di poche tavole, collegate tra loro in una trama principale che prende il via dalla morte della nonna di origini francesi.
La storia è punteggiata da momenti intensi ed efficaci. Assistiamo alla nascita dell’Armadillo, una delle “voci interiori” di Zerocalcare, a seguito della separazione dei genitori. Comprendiamo la reazione dell’autore al lutto e al dolore, in una naturale evoluzione delle riflessioni lette nell’esordio, La profezia dell’armadillo. Osserviamo la distanza incolmabile che separa una madre e un figlio nell’affrontare la morte di una persona cara. E così via. Sono molti i momenti in cui Zerocalcare sa parlare con chiarezza al lettore, sa coinvolgere emotivamente e mettere in moto quel meccanismo di empatia e di identificazione che lo ha reso celebre. Tra l’altro, sempre con un senso dell’ironia leggero ma pungente, a tratti davvero convincente.

Eppure, nel suo complesso, Dimentica il mio nome appare un libro debole. Senza dubbio più debole di altri precedenti.

In primo luogo, l’impostazione della storia è diventata eccessivamente ripetitiva e prevedibile. L’autore ha trovato il suo equilibrio stilistico, ma senza alcuna vera innovazione, quanto piuttosto chiudendosi in un manierismo che tende a irrigidirsi e a fare il verso al proprio stesso stile. Insomma, se in La profezia dell’armadillo, il sorprendente esordio, la struttura è funzionale, oltre che figlia dello sviluppo stesso del libro, la struttura di Dimentica il mio nome rappresenta più una scelta di tipo conservativo o, al peggio, un segno di pigrizia. E l’ultima cosa che vorremmo da un autore del talento di Zerocalcare è che si accomodi in una formula di successo ma sterile.

In secondo luogo, l’autore apre la narrazione autobiografica a uno sviluppo fantastico che non aggiunge nulla alla storia, anzi, risulta alla fine controproducente. Perché diluisce eccessivamente la storia, togliendo ritmo e forza; perché inceppa il processo di identificazione del lettore, tanto da portarlo a qualche alzata di spalle di troppo. Per quanto sia apprezzabile, in questo caso sì, l’abilità nel ricercare nuove forme stilistiche e sollecitazioni in un territorio prima inesplorato o quasi (i Rattodonti di Jeff Smith, per dirne una), il tutto si riduce a una deviazione narrativa né intrinsecamente necessaria né efficace sul piano narrativo.

In terzo luogo, Dimentica il mio nome è un libro troppo lungo per la storia che vuole essere raccontata, colpa anche della struttura a microepisodi che lo caratterizza. Quei passaggi da una scena all’altra, quelle costanti aperture ad argomenti altri (parentesi dopo parentesi, come la scena infelice delle macchie sugli occhi) danno alla lettura un vago senso di stanchezza e ripetitività, che toglie forza ai momenti più riusciti. Troppo diluiti, troppo sintetici, troppo inconsistenti.

L’autobiografia è un genere difficile. Tra i più complessi in assoluto. Perché richiede l’impertinenza e la presunzione di elevare a senso e a esempio la normalità della vita di tutti noi. Tale esemplificazione funziona se si ha davvero qualcosa da raccontare (fosse essa una chiara emozione, un passaggio esistenziale, eventi particolarmente significativi, ecc.), altrimenti si rischia di finire per parlarsi addosso. Gli autori di successo che fanno dell’autobiografia la loro forma “canonica” hanno poi un ulteriore rischio: di dover continuare a narrare di sé, a qualunque costo.
Insomma, gli autori oltre che il bisogno di raccontare, hanno anche il bisogno di accumulare esperienze significative. Forse a Zerocalcare serve una pausa più ampia per elaborare nuove esperienze e nuove forme di racconto?
Se la soluzione a questi interrogativi passa attraverso una sorta di “autobiografia fantastica” credo che potrebbe essere utile una pausa di riflessione, costi quel che costi in termini di successo e vendite.

Abbiamo parlato di:
Dimentica il mio nome
Zerocalcare
Bao Publishing, ottobre 2014
235 pagine, cartonato, colore – € 18,00
ISBN-13: 9788865432549


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