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Dinamo nere

Creato il 04 giugno 2014 da Media Inaf

Quando si parla di campi di forza attorno ai buchi neri, là sulla linea dell’orizzonte degli eventi, diamo per scontato che si tratti di forza gravitazionale. Be’, quella certo non manca, considerando che è in grado di deviare persino la luce. Ma se pensate che là attorno non ci sia un campo altrettanto intenso, significa che non avete ancora assaggiato quello magnetico. A svelarlo, una serie d’osservazioni compiute tramite l’array di radiotelescopi VLBA, i cui risultati vengono pubblicati oggi su Nature, da ricercatori del Max Planck Institute for Radio Astronomy (MPIfR) di Monaco, in Germania, e del Lawrence Berkeley National Laboratory (LBNL), in California.

«Nonostante la teoria lo predicesse da tempo, per la prima volta le osservazioni ci permettono di andare nella parte più vicina al buco nero», commenta Monica Orienti, ricercatrice all’Istituto di Radioastronomia dell’INAF di Bologna, «e “vedere” l’azione esercitata dal campo magnetico sulla formazione dei getti che si originano dal centro della galassia».

In effetti, il sospetto che attorno ad alcuni buchi neri supermassicci la forza dei campi magnetici potesse essere talmente intensa da eguagliare quella gravitazionale era già emerso dai modelli teorici che descrivono i cosiddetti radio-loud AGN. Ovvero, quel 10 percento circa di galassie dal nucleo attivo dal cui buco nero centrale partono due getti collimati di materia, a velocità prossime a quelle della luce, la cui emissione può essere rilevata sotto forma di onde radio.

Ma come dimostrarlo, come misurare i campi magnetici di oggetti che, per quanto enormi, si trovano addirittura su altre galassie? Occorre una risoluzione spaventosa, inarrivabile anche per il telescopio – il radiotelescopio, in questo caso – più grande che si possa mai concepire. E non parliamo di decine di metri, ma nemmeno di chilometri: per studiare al livello di dettaglio richiesto la dinamica dei getti da buchi neri supermassicci occorrerebbe un radiotelescopio con una parabola dal diametro di migliaia di chilometri. Fortunatamente, però, là dove un singolo radiotelescopio fallisce, possono arrivare due o più antenne che lavorino insieme, in modo perfettamente sincrono.

La tecnica, nota come VLBI (Very-long-baseline interferometry), permette d’arrivare a un potere risolutivo equivalente a quello d’una sola antenna dal diametro pari alla distanza fra i radiotelescopi più lontani. In questo caso, il gruppo guidato da Mohammad Zamaninasab, primo autore dello studio, si è avvalso dei dati sull’intensità del flusso magnetico di 191 AGN radio-loud raccolti dalla rete VLBI americana VLBA, che si estende per circa 8000 km, dalle Hawaii alle Isole Vergini. Per 76 di queste 191 galassie dal nucleo attivo – per l’esattezza, 68 blazar e 8 radiogalassie vicine – erano poi disponibili anche misure relative all’intensità della loro emissione luminosa. Questo ha consentito ai ricercatori di identificare una correlazione molto forte tra le due misure, permettendo così di stabilire un collegamento tra l’intensità dei getti emessi dagli AGN e quella del loro campo magnetico.

E se dall’intensità del campo magnetico nei pressi dell’orizzonte del buco nero dipende la potenza dei suoi getti, in base ai modelli attuali – che considerano i buchi neri una sorta di magneti in rapida rotazione su se stessi – questo influenzerebbe anche la loro luminosità apparente in banda radio. Di conseguenza, suggeriscono gli autori, è possibile che sia proprio la presenza di campi magnetici intensi quanto quello gravitazionale a far sì che un buco nero supermassiccio possa emettere dei getti, offrendo così un meccanismo in grado di spiegare l’esistenza degli AGN radio-loud.

Per saperne di più:

 

Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina


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