13 marzo 2013 di Redazione
di Pierluigi Mele
Annamaria Germani (Angy), “Dea” – olio su tela
Il poemetto è contenuto in Pierluigi Mele “Ho provato a non somigliarti”, Lupo Editore 2011
1.
E al crepuscolo un angelo
va sui sagrati a mezz’aria
o per le nostre soglie tiene il tempo
che passa. Non gli crede più di qualcuno
e gli tarpa le ali per astio
d’aver perso ogni volo.
Il dio del sud guarda l’angelo
e dice: ho un passato non facile
neanche divino,
lo accetto come i figli che servo.
Li vorrei animali
meglio se tordi, capre, la serpe.
Ho denti di sega, scarne mascelle
per colonia uso finocchio,
non sono il dio di pianure irrigate.
Lo capisci da come congiungo le mani
fra i tronchi di secoli
i rami e imbocco l’ostia del sole.
Spesso gioco a tressette
o tento quel rebus: verrà neve quest’anno
o i turchi di nuovo?
Non dirigo il destino,
io stesso sono uomo per primo.
So di avere ricordi
e li imbottiglio come salsa all’inverno.
Sono volti slavati
cosette ma è tutto,
come pure ho terrore
dei funzionari col cristo alle spalle.
Sono soddisfazioni anche le croci.
2.
“Come ulivo potrei dire molto del dio,
ne so tanto oramai.
Ma le definizioni le lascio
a chi scarabocchia finzioni
e ne muore.
A chi mi vive, mi scuote
sono attento, dò pace.
Ho da lavorare il giorno
che viene e la notte.
Come ulivo non gemo,
sono cose che riguardano voi
la bellezza e il rancore.
A sradicarmi basta quel dio
che non maledico,
fruscia l’erba al mio posto.
Di lui posso dire
è in me
nei tralci, nei frutti
nel sangue ai miei piedi,
la terra, rossa perché incinta di pena
o lunare, non so,
sono cose che riguardano voi
il piacere e il dolore.
Ho il mio da fare
per mare, per zolle
coi ratti, le volpi e folletti
dai nomi che sembrano dolci, forzieri,
avete tutte le balle
ed il vero a disposizione.
Non chiedetemi ora.
Vi basti il mio succo
che lascio nel segno di lui”.
3.
Pure succede che una pecora nera
si guadagni il volo per farsi santo
e cadere. Non solo angeli,
giullari stanno a mezz’aria e poeti.
Chi il dio lo bestemmia, lo fa per pregarlo
due volte. Pecca chi non lo sente,
è così che lo uccide.
Di giorno è il mare che sana,
ma solo d’estate.
Il dio del sud non ama il mare,
lo vive distante
come chi ne ha paura fa con i cani.
Predilige le cave, i gelsi, la vite
e le corti
dove si gioca a restare antichi.
Ma si è adattato all’asfalto di moda.
Per chiamarlo ognuno ha il suo lessico
povero, vivo. Finali
doppie tra i denti e la gola.
E c’è una lingua di supplica
partenze e ritorni.
Lingua per nove natali
glossa jà ennèa Kristù
nove pasque le strofe
ennèa Pàskata es tiritère
nove mele d’addio
ennèa mila sti kalìn ora
nove veli la sorte
ennèa veli i sorta
nove letti la luna
ennèa krovàttia ‘o fengo
nove orci di fichi
ennèa kofinìzzu afsè sika
nove mandorle in dote
ennèa mèndule jà rucho
nove anelli di pane
ennèa dattilìdia afsè fsomì
nove gonne sfilate
ennèa fustiànu spammènu
lega un’alfa i capelli
dènni mian alfa ta maddhìa.
Qui dio ha la voce di tutti
e se lo perdi risponde
sono nel mezzo, tra il tuo nome ed il mio.
4.
L’ho visto commuoversi
per una madre in preghiera
e non era il tempo a mancarle
ma le parole per dirlo,
dire tutto l’amore
versato a invocare suo figlio.
“Siamo cresciuti, oh se siamo cresciuti.
I capelli uno sbuffo di brina
la bocca una barca rivolta
ma la voce, la tua voce è limpida ancora
dà il fuoco e la forza.
Sospiro il tuo nome
e mi scaldo con quello.
Noi ci parliamo,
nessuno ci sente.
È bianco l’orto in cui ti vedo fiorire,
sei mandorlo e giglio.
Ma le preghiere a volte tornano indietro
e mi tocca parlare più forte
perché tu mi risponda.
E i miei occhi non sanno più se cercarti
o lasciarsi dormire”.
5.
Il dio è lo scemo di piazza
smemorato tra i lumi.
Primavera è lontana.
La ricordano appena ragazze
imbronciate ai diari.
Ciondola dio, goffo pierrot,
la tua lacrima nera
è larga, profonda,
ecco la notte.
Qualcuno scalcia bottiglie
e ancora si beve.
Roca una compagnia per i vichi.
Qui è la città melodramma,
Lecce che si guarda l’ombelico
dal loggione. Un tenore
quisquilia, alla città piace
ninnare in un seggiolone.
Il santo alza il tre di picche e benedice.
Le stelle stanno come vedove
a cui nessuno chiede la mano.
Meglio lasciarci con la speranza ciascuna.
è così dicendo che albeggia.
6.
Il dio lascia le gemme di sé
per l’Europa e le spine.
“Quando partii ricordo il cuore
di mia madre, un fico d’India.
Non venne a salutarmi, non lo volli.
Mio padre disse solo non guardarmi.
Ricordo le facce intorno a me
sui gommoni a rotaie del sud.
Ricordo i casotti che abitammo,
il vino al posto della nafta per scaldarci
e la voce di mio padre
non guardarmi, non ho colpa.
Ora sono tornato
e spalanco una porta alla schiena:
ho allacciato i risvegli alla cena,
questo il migrare giusto e balordo.
Ma non oltraggio più dio.
Quando partono i treni
non guardare chi resta”.
7.
Camminando lungo i valloni
tu senti una tregua,
è il vento a guidarti per favi, le querce
cavalli tra i muraglioni.
E t’imbatti nei borghi all’interno
dove tutto coincide,
piazza edicola chiesa
è il futuro. Paesi benedetti,
innamorarsi è la notizia del giorno
diffusa da gallo e barbiere.
Qui vive il topo da biblioteca
che sa tutto d’una marchesa,
di pittori che affrescarono vergini
grasse di zie,
di scrittori che nessuno ha mai letto
e conosce tutti i nomi che una parola
può avere, farfalla, vagina.
Qui è un’altra storia anche fare l’amore.
Le donne guardano e t’hanno preso già le misure,
parlano al gusto di giuggiole
siedono tavole per tredici santi
e votano solo perché fa bene
all’umore uscire di casa.
Ed eccolo il mare,
il teatro dove dio fa la parte
senza avere studiato. Quel che sa
è la strada, nostalgie d’oltremare
e canta della figlia del re
e si crede suo padre.
Sulla faccia ha i segni di tutti gli ami
e dei pesci che non hanno abboccato.
Sono angeli anche i diavoli
che ha per capello,
li guarda mansueto e li offre
a chi va per l’acqua celeste.
Nota al testo
- «Il dio del Sud»: trasfigurazione del Salento, attraverso un almanacco di geografie e stagioni umane.
- «si guadagni il volo per farsi santo/ e cadere»: San Giuseppe da Copertino (1603-1663), al secolo Giuseppe Maria Desa, fu un sacerdote francescano proclamato santo nel 1767 da papa Clemente XIII. Egli è conosciuto come il santo dei voli, in ragione della levitazione durante i suoi stati di estasi e per cui fu processato e poi assolto.
- «E c’è una lingua di supplica/ partenze e ritorni»: il rimando è alla cultura e alla simbologia grika.
- «Lecce che si guarda l’ombelico/ dal loggione. Un tenore/ quisquilia, alla città piace/ ninnare in un seggiolone./ Il santo alza il tre di picche e benedice»: richiami a Lecce e alla sua piazza principale, piazza Sant’Oronzo. Durante l’anno, a mezzogiorno in punto, è possibile ascoltare la voce del tenore Tito Schipa (1888-1965) dagli altoparlanti di Palazzo Carafa, sede del Comune. Mentre la statua di Sant’Oronzo sovrasta l’intera piazza con le sue tre dita sollevate al cielo in segno di benedizione.
- «e canta della figlia del re/ e si crede suo padre»: dalla canzone popolare “Lu rusciu te lu mare”, in cui si racconta di un amore negato tra una fanciulla, figlia di un re, e un soldato.