Dio esiste e vive a Bruxelles

Creato il 16 marzo 2016 da Eraserhead
Per Jaco Van Dormael Dio è donna, così come il Nuovo Profeta. L’obiettivo che il regista belga si è preposto con il suo quarto lungometraggio è stato quello di rovesciare gli assiomi del cristianesimo: ecco, non una cosa proprio da niente visto il materiale che in fase di pre-scrittura doveva fronteggiare: smitizzare i santi, giocare coi dogmi, detonare la sacralità, il tutto senza ovviamente abbandonare il proprio stile oramai sempre più riconoscibile, cinema che si eleva nell’infantilità, esplorazione dei territori reconditi dell’immaginazione che tutto può, con Van Dormael. Anche spodestare Dio, e per fare questo si è avvalso di un impianto che opera sovvertendo: il Dio che incontriamo è un uomo cattivo e sbruffone, un demiurgo che gode delle sfighe altrui, un padre padrone qualunque. L’emersione del contrasto tra ciò che è la nostra idea di divinità e quella di Van Dormael ha i suoi effetti corroborati da scenette un filo taglienti che si sviluppano una volta che Egli scende tra noi (i ripetuti pestaggi, la goffaggine, l’incapacità di trascendere la materialità: lui non cammina sull’acqua), ma Le tout nouveau testament (2015) non può essere limitato a questa lettura anche perché sebbene si potrebbe vedere nella contro-evangelizzazione il motivo portante dell’opera, con annessa ironia nemmeno troppo velata sul vuoto dietro e dentro la religione, alla fine chi scrive non è rimasto poi tanto impressionato dalla declinazione vandormaeliana di Dio che pur divertente finisce per farsi vignetta, bidimensionalità macchiettistica, e le accentature come il Gesù statuetta o il sistema-Matrix in DOS che genera leggi-stereotipo seguono un medesimo andazzo: divertentismi evidenti, ciliegine comunque spolpate.
Non è quindi il racconto di superficie a calamitare lo spettatore, ciò che si deve però evidenziare è ancora una volta il metodo di Van Dormael che, come ci aveva fatto vedere in occasione di Mr.Nobody (2009), è ormai capace di manipolare come desidera (e anche come desidera una semplice persona che guarda: banalmente: essere stupiti dalla visione) i processi narrativi che con lui germogliano incessantemente dando vita ad una scatola magica che riporta tutto ad una dimensione di perduto e qui ritrovato incanto. Ergo, è tutto bellissimo: l’applicazione del proprio metodo alla riscrittura della Sacra Scrittura è l’ennesima occasione per sgomitolare un filo di storie incredibili dove Van Dormael pesca da un cilindro senza fondo una quantità di trovate estetiche funzionali all’irrealtà rappresentata. Si gode parecchio nell’assistere al film e c’è conforto nel prendere atto che dopo millenni di storie la nostra coscienza emotiva può essere ancora stimolata da una storia, in fondo tutta la questione di Dio ivi imbastita passa agevolmente in secondo piano, a mano a mano che facciamo conoscenza con i sei apostoli c’è solo un aspetto che reclama urgente attenzione: è l’umano, quindi la vita, che nella prospettiva di Van Dormael arriva ad una riconciliazione attraverso l’amore. Quello che ci viene insegnato senza saccenza è quell’apertura verso l’Altro (anche così diverso: un gorilla!) che diviene accoglienza di sé: è, nella scena-riempi-cuore, l’abbracciare il proprio riflesso nello specchio.
Alla luce dei lavori precedenti, ricordiamo Toto le héros (1991) e il non perfetto L’ottavo giorno (1996), Jaco Van Dormael afferma lo status di regista massimalista, un titolo che a conti fatti non può condividere con nessuno (forse Sion Sono ed altri orientali ma si tratta di un altro mondo; forse l’Julio Medem di un tempo ma oramai, di tempo, ne è passato troppo per lo spagnolo), e nel panorama del cinema da sala, metastatizzato ogni giovedì della settimana dalle copie conformate che la distribuzione immette nel mercato, l’offerta di Van Dormael, in un’ottica che definirei in modo banalizzante “d’intrattenimento”, è quanto di meglio ci possa essere.

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