Torino, Spazio 211. Foto di Laura Misuraca.
“Tutto finisce ora, tutto comincia adesso”: questa è la frase con cui l’anno scorso si è chiuso il NOfest!, il festival di musica indipendente che per cinque anni ha attirato l’attenzione nazionale in quel di Torino, città in cui la musica è ben radicata fin dagli anni Ottanta. Sono infatti tre le principali “scene” che ancora oggi si dividono e contendono i suoi angoli: il rap, il punk hardcore e l’alternative rock. Il NOfest!, organizzato allo Spazio211, è sempre stato un festival-non festival che ha cercato di dare visibilità alla musica non convenzionale e alle realtà D.I.Y., procurando, attraverso la mescolanza dei generi, opportunità di accrescimento culturale e vitale confronto sociale in uno dei quartieri più periferici della città. Questo evento, infatti, senza finanziamenti pubblici o privati, non solo ha ospitato oltre un centinaio di artisti, sia torinesi, sia provenienti da ogni parte d’Italia, ma ha registrato ogni anno oltre 5000 spettatori. E chi, tra questi, non è rimasto affezionato a una cosa così? Gli organizzatori, un po’ per accontentare il pubblico più fedele, un po’ per alleviare il vuoto pneumatico che continuava a rimbombare in tutta la città, hanno deciso di ripartire da zero e di allestire un nuovo evento: il D.I.O. Fest!, la cui sigla sta per “Do It Over”. Anche quest’anno sono state tre le giornate dedicate alla musica indipendente: la prima, ad opera della rivista Rumore, è stata denominata appunto “Rumore Fest!”; la seconda, organizzata con la collaborazione delle etichette Boring Machines e No=FI Recordings, si è basata sul confronto tra 60′S psych e 00′S Occulto; la terza, allestita in collaborazione con Solo Vinili/Libri, è stata intitolata “Tupatupa Sound”. Noi siamo stati presenti a solo due delle tre giornate.
Day one – Rumore Fest!
Si parte dalla serata in tandem con l’ormai storica rivista, la cui redazione ha subito nell’ultimo anno una trasformazione radicale, spostandosi tra l’altro proprio in questa città. Lo staff, con lo scopo di distinguersi dagli altri, ha spiegato che per crescere è importante stabilire un contatto e un confronto diretto coi propri lettori, ascoltando le loro esigenze e osservando le loro reazioni. Un giornale che, insomma, sembra voglia correre ancora per restare sempre al passo coi gusti del proprio pubblico. I concerti, dopo la proiezione della partita dei mondiali Italia-Costarica, iniziano con l’esibizione dei Deian & Lorsoglabro, gruppo “di casa” distintosi al Traffic Free Festival del 2009 per aver aperto l’esibizione di Nick Cave & The Bad Seeds. La forte impronta “indie pop” che li caratterizza si manifesta immediatamente nella produzione di suoni e parole simili a filastrocche, che martellano la mente degli ascoltatori.
Di tutt’altro genere è invece la seconda band di questa sera: Squarcicatrici. Quello che subito balza agli occhi, oltre che alle orecchie, è la disinvoltura con cui ogni singolo componente suona gli strumenti o tratta i suoni: sembra quasi che lo spirito punk, che la band si vanta di avere, sia la base portante di tutto il progetto del polistrumentista Jacopo Andreini. Sarebbe riduttivo, infatti, definirlo soltanto free jazz, perché si passa con disinvoltura da uno stile all’altro, racchiudendoli tutti in un sol colpo.
Tocca alla Fuzz Orchestra (già a Torino l’anno scorso), che come sempre è una bomba ad orologeria, perché riesce ad avere sul pubblico un impatto gradualmente forte sia a livello visivo, sia sonoro. All’inizio attira subito l’attenzione degli spettatori, mentre durante la performance, come un ordigno appena esploso, colpisce con le proprie “schegge” chiunque la stia ascoltando. Alla fine, invece, lascia un senso di spaesamento sui volti, proprio come chi sente fischiare le orecchie dopo una deflagrazione. “Spettacolare” è l’aggettivo che viene in mente assistendo al live di questi signori, non solo per il modo eccezionale di suonare e per gli effetti scenografici sul palco, ma soprattutto per le parti che hanno reso omaggio al mondo del cinema e che hanno creato un’atmosfera di suspense tipica dei film degli anni Sessanta-Settanta.
Una performance molto particolare è sicuramente anche quella dei Guardian Alien: il drummer Greg Fox (già nei Liturgy) non esita a mostrare subito le sue abilità con le bacchette, producendo ritmi sincopati, suoni tribali e assoli quasi “paranormali”, prediligendo improvvisazioni all’apparenza casuali, insomma senza troppi schemi prestabiliti. La singer, Alexandra Drewchin, è in sintonia con ogni pezzo di Fox: il suo tono si alza o si abbassa in base ai rumori prodotti dai piatti, dal rullante o dalla grancassa. Il suo modo di cantare, però, con la voce che cambia registro e si spinge oltre l’acuto, ricorda in maniera poco originale quello della Jarboe solista, rischiando di sembrare un’imitazione mal riuscita e di provocare pure il dissenso del pubblico.
Uno dei gruppi più attesi dai cittadini torinesi sono i Titor: c’è chi è venuto apposta per loro e chi, come me, non sa nemmeno chi siano. Appena salgono sul palco, però, è amore a prima vista. Tra i componenti spicca sicuramente il cantante Sabino Pace (già Belli Cosi e I Treni All’Alba), che col suo modo di parlare veloce, lucido e nevrotico, cattura l’attenzione del pubblico ancora prima che inizi il set. Una volta partita la musica, poi, le sue corde vocali si lasciano andare a uno sfogo senza tregua: parole urlate, ma al tempo stesso scandite con chiarezza, frasi ripetute e ricercate nel senso. Gli astanti – totalmente in delirio tra urla, ondate di pogo e tuffi dal palco – conoscono i testi a memoria e li ripetono assieme a Pace. A differenza dei gruppi odierni, i Titor sembrano voler mostrare le loro radici nell’hc torinese delle origini: gruppi come Negazione, Nerorgasmo o Contrazione sono senz’altro i loro ispiratori e i loro punti di riferimento. I Titor, con una performance devastante, sono la sorpresa più bella della serata e l’unica band che riesce a mettere di fatto sotto-sopra lo Spazio 211.
Raccomandati dai Titor stessi (il cantante ne sfoggiava la maglietta), i Peawees hanno la fortuna di ricevere tutto il calore di un pubblico già fomentato in precedenza. Anche la band spezzina regala agli spettatori un tuffo nel passato. In particolare, è il punk rock ’77 ad essere richiamato alla memoria: sentendo i loro i riff non si possono non ricordare gruppi come Clash, Stiff Little Fingers e i Buzzcocks. L’energia non manca, ma l’assenza di una certa originalità nei pezzi è l’unica stonatura, seppur la più importante, che mi fa storcere il naso: è questo, purtroppo, il prezzo da pagare quando si va a vedere un gruppo che continua a suonare un genere musicale ormai sorpassato.
Solitamente, durante i festival, sono tante le attività che si svolgono in contemporanea, ma è raro che vengano tutte sistemate con coerenza e criterio. In un evento come questo, con alle spalle anni di esperienza, era scontato che l’organizzazione fosse impeccabile, dagli stand adibiti per le etichette indipendenti alle zone allestite all’aperto per il ristoro o il relax. Mentre mi distraevo immersa tra musica e foto, ad esempio, veniva presentato il libro “Non Ti Divertire Troppo“, ideato e curato da Renato Angelo Taddei della Flying Kids Records. “Simpatico e coinvolgente”: è stato descritto così da chi ha assistito alla presentazione. In effetti è vero, quel libro si legge che è un piacere. La serata comunque, ricca di sorprese, è passata velocemente, senza che me ne rendessi nemmeno conto: quando questo accade, significa che non sarebbe potuta andare meglio. (a cura di Laura Misuraca)
Day two – D.I.O. Fest!
Faccio appena in tempo a vedere l’ultima parte del live set dei romani Bobsleigh Baby (alla chitarra c’è il francese Bob Junior, già negli Hiss), giusto per prendere atto della loro proposta che mescola sonorità psych ad interessanti deviazioni r’n’r. Sempre nello spazio aperto, prima che cali il sole, è la volta del Jooklo Duo, gruppo che già ai tempi della nostra prima mixtape segnalammo come una delle realtà più libere e fortemente espressive del nostro underground. Mezz’ora di controllatissimi deliri free-jazz, con l’articolato drumming di David Vanzan che segue a ruota il fiato possente di Virginia Genta, presa dal continuo alternarsi degli strumenti (sassofono, flauto e clarino) in un riuscito mix dalla potente resa live.
Il tempo di sistemare il palco e fanno la loro comparsa i Sonic Jesus, gruppo di costituzione piuttosto recente, che si concentra in uno storto ed ossessivo rimestare shoegaze, e verso la fine si accascia in un rumoroso mare di feedback, non precisamente la mia tazza di tè, ma staremo sicuramente a sentire gli eventuali sviluppi futuri.
La cosa interessante di questa prima edizione del D.I.O. Fest! è comunque la commistione di stili e generi (per la cronaca più netta rispetto a quanto visto lo scorso anno nel defunto NOfest!), che per esempio ci permette di assistere all’esibizione di un vero “cane sciolto” come Mike Cooper. Ci occupammo di lui in “solo” e per il suo split (su Old Bicycle Records) in combutta con Zeno Gabaglio. Già lì ci rendemmo conto che s’aveva a che fare con un artista che si occupava in modo scrupoloso di mettere in musica astruse registrazioni che sanno forte di palude e di blues, immerse però in colorate scorie “metropolitane”. Sensazione che dal vivo diventa ancor più pregnante, dato che la sua presenza non passa certo inosservata. Uno dei set migliori, secondo me, davvero riuscito nel suo procedere per strati e con coraggio attraverso ritmiche impazzite di campionamenti drum and bass (lo so, detta così fa quasi inorridire…), lap steel guitar e profumi di oceani (pensate ad una sorta di hypnagogic pop che rientra dalla finestra ripulito da inutile hype).
Dopo la successiva entrata nel locale (ormai è buio), si palesano i No Strange, storico gruppo ripescato da un passato ormai remoto (e che per scelta suona poco dal vivo), che mescola con nonchalance psichedelia e rock dal sapore Sixties, ma il risultato sa un pelo di stantio, per quanto non stoni affatto con l’insieme, anzi.
Per riprendermi da tale ubriacatura di stili ci vuole qualcosa di forte, e la botta la dà, per l’ennesima volta, Toni Cutrone in arte Mai Mai Mai, nella sua mezz’ora di trance noise drone, che col passare dei minuti cresce di intensità. Il suo è, ci ripetiamo, una sorta di “rumore acquatico” (i riferimenti a certa parte del Mediterraneo forse li conoscete già), che si mescola sapientemente alle immagini alle spalle di quest’uomo incappucciato, lo stesso dell’etichetta No=Fi Recordings (Hiroshima Rocks Around e Trouble Vs Glue) e del Dal Verme (il festival Thalassa).
Ci sono poi i torinesi S.O.A.B., ma in tutta sincerità il loro rock nerboruto (dalle venature hard) e bagnato nel blues non cattura più di tanto la mia attenzione. Aspetto invece con curiosità il live dei Lay Llamas, band capitanata dai siciliani Nicola Giunta e Gioele Valenti (ma operano nel Veneto) e in possesso di una sezione ritmica di tutto rispetto. La loro è una delle proposte più fresche della serata, anche perché riescono a sintetizzare con sapienza pop a psichedelia floydiana, ma da una prospettiva velatamente kraut, e fanno centro. Dicevamo del gruppo: interessante il fatto che sappiano tenere il palco come pochi, e che alla batteria ci sia un ragazzo che è una macchina da guerra. Se continuano così, faranno parecchia strada.
Prima c’era stata, in una stanza a parte, la performance di Psalm’N’Locker (dietro c’è Luca Garino di HMWWAWCIAWCCW). Le sue macchine sputano suoni che sanno di puntillismo sonoro piuttosto marziale, e la prova è riuscita, pur rimanendo esclusiva di pochi intenditori. D’altronde non è neanche facile “astrarsi” dal contesto di un festival davanti a note insistenti che fuoriescono da strumentazioni sempre difficili da gestire.
Ormai è sera, lo Spazio 211 s’è riempito un bel po’, e ci aspettano le scudisciate di impronta math metal dei MoRkObOt. Faccio una doverosa premessa: non seguo molto certe sonorità, pur avendole apprezzate ai tempi grazie a Don Caballero & soci, però va detto che il gruppo di Marco Bellina (abile illustratore, tra l’altro) e soci sa il fatto suo, tanto è vero che si registra una discreta calca davanti a loro (e verso la fine si accenna al pogo). Fanno “male” gli autori di MoRbO, tanto che le orecchie faticano a seguire una massa sonora cosi impressionante, nera e senza tregua. Ce n’è per tutti i gusti, insomma, ed è giusto sia cosi.
Il finale è per La Piramide Di Sangue, che chiaramente si sente molto a suo agio, visto che sono ormai degli habitué. Ancora una volta mantiene quel che promette (qui presentano il loro ultimo interessante lavoro, Sette). Quasi un’ora di melodie etniche imbevute di psichedelia e rock tostissimo, con coda finale che ci ricorda i pezzi del primo disco, Tebe, e che manda letteralmente in visibilio gli astanti, che apprezzano e ricambiano con urla di gioia. Ottima chiusura, non c’è che dire. Si ritorna il prossimo anno, si spera. (a cura di Maurizio Inchingoli)
Il nostro D.I.O. Fest! si chiude qui, ma va aggiunto che nella giornata conclusiva ci sono stati, tra gli altri, Cardosanto, Cibo e Tutti I Colori Del Buio.
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