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Diritti divisi, democrazia dimezzata

Creato il 30 giugno 2011 da Albertocapece

Diritti divisi, democrazia dimezzataAnna Lombroso per il Simplicissimus

L’utopia travolta del socialismo ha ridotto in macerie anche l’utopia aggiuntiva che le donne si sarebbero affrancate per processo “naturale” all’interno della rivoluzione e dell’abolizione del sistema capitalistico di produzione.
Non potevamo aspettarci molto di più dalla democrazia si vede. Pur con buoni risultati: nei paesi Ocse nelle università le donne superano gli uomini non solo numericamente ma anche nei risultati accademici. Ma sarebbe imprudente sostenere che le democrazie occidentali siano più sensibili al problema della parità di genere, nel lavoro, nella giurisprudenza, e in politica. E sarebbe peregrino immaginare, ce lo rammenta oggi il Simplicissimus, che venga esercitata da parte di donne al potere una maggiore sensibilità di genere ai diritti. Potere e capitalismo non hanno sesso, ma certo il dizionario denuncia che si tratta di sostantivi maschili.

E le donne continuano ad essere penalizzate sul mercato del lavoro e a parità di prestazione non ricevono retribuzioni uguali agli uomini e sono ostacolate del conseguimento delle più alte dalle gerarchie dirigenziali. Nella gran parte delle democrazie la rappresentanza femminile nelle istituzioni resta scarsa, a conferma che il diritto di voto non è poi lo strumento onnipotente che Mill auspicava. I voti delle donne non si traducono in una presenza femminile in politica e la capacità professionale delle donne non riesce a varcare la soglia dei ranghi più alti della pubblica amministrazione. La permanente asimmetria – disuguaglianza, discriminazione – tra i generi si spiega con l’ovvia constatazione che i sistemi politici delle democrazie moderne sono organizzazioni maschili che riflettono e interpretano principalmente valori, culture e tradizioni maschili.

Ma v’è un elemento in più a caratterizzare l’anomalia italiana e il caso delle operaie “scelte” per essere licenziate così tornano a casa a fare le moglie le madri lo testimonia esemplarmente. Ci riconduce all’erosione di certi vincoli di coesione civile e di solidarietà proprio di antiche organizzazioni sociali che non sono stati sostituiti da un sistema adeguato di connessione tra famiglie, società civile e stato. Ma, come dimostra il “crumiraggio” di genere degli operai che indifferenti al destino delle loro compagne oggi si sono presentati al lavoro, c’è qualcosa di più infame che pesa su tutti noi come una comune vergogna. Pare che su un fronte questo governo continui a vincere, nel ricattarci talmente con tutto il suo repertorio di minacce e paure: disoccupazione, perdita di piccoli privilegi, depauperamento del welfare, irruzione di nuovi soggetti nel nostro iniquo e precario equilibrio, da introdurre una velenosa segmentazione dei diritti che finisce inesorabilmente per diventare gerarchia. Si è rivelata come sempre efficace la scelta di separare, paese, ceti, bisogni, istanze, aspettative, in modo che la partecipazione si riduca a corporativismo e la politica a rabbiosa rivendicazione, e che si rafforzi una oligarchia decisa a fare l’interesse di pochi contro le ragioni di molti.

Così ha frazionato il pensiero e l’unità dei principi fondativi del sistema democratico e costituzionale, oltre che semplicemente civili e umani: eguaglianza, solidarietà, dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, informazione, potenti e forti e inattaccabili solo nella misura in cui se ne salvaguardi l’indivisibilità. Questo è uno dei motivi principali per cui dovremmo indignarci, per la vittoria sul senso comune e sull’interesse generale di un regime che ha aperto innumerevoli cantieri per abbattere e scardinare i sentimenti morali della nazione, che ha trasformato le contraddizioni in contrapposizioni, le differenze in conflitto, il dialogare in violenza.

È successo per il conflitto che va materializzandosi sempre di più, quella rottura del patto generazionale promossa da un’autorevole avanguardia di quella modernità arretrata che ha arruolato imprenditori critici pronti al salto in politica e economisti che pensano di temperare lo scontro di classe facendolo retrocedere a scaramuccia tra padri e figli. E ai quali non viene in mente che la competizione spinta tra diritti negati ai giovani e tutele esaltate di docenti troppo protetti, pensionati troppo abbienti e anziani troppo garantiti si risolve liberando risorse dall’alto, rimettendo in gioco il bottino e la rendita dei ceti privilegiati, di quel 10% di popolazione al vertice della piramide che si accaparra la metà della ricchezza nazionale. E che artatamente dimentica che è proprio dei diritti la capacità di crescere in modo solidale, che solo la tutela moltiplica tutela, che la loro forza è consolidata dalla loro indivisibilità e dalla condizione irrinunciabile di essere applicati in modo quanto più possibile diffuso e uniforme.

Così succede nella separatezza del pensiero intorno alla dignità di genere offesa dalla mercificazione del corpo femminile, legittima, ma parziale quando trascura l’aspetto della mercificazione degli intelletti, delle intelligenze, delle opinioni. E che trascura l’uguale diritto al rispetto di altri corpi di uomini e donne, contabilizzati e valutati commercialmente solo in funzione dell’efficienza in fabbrica, al desk, nella noncuranza delle loro qualità di vita. E altri corpi ancora rimossi dall’immaginario perché imperfetto e dei quali si vuole decidere la modalità di vita e di morte, nell’indifferenza per il rispetto della volontà.
Solo un’alleanza, un patto civile intorno all’indivisibilità dei diritti e al ripristino di condizioni di legalità e moralità può redimerci della colpa di esserci piegati al disegno criminale di chi con la divisione e con il rancore vuole stravolgere con il sistema democratico libertà di ognuno e di tutti.


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