di Cristiano Abbadessa
È certamente a causa delle mie inclinazioni politiche, ma negli ultimi tempi mi capita sempre più spesso di rimpiangere l’assenza di un forte dirigismo (e, perché no?, di una buona dose di intervento pubblico) quale contraltare, o perlomeno elemento calmierante, delle storture dell’economia di mercato. Fra l’altro, sotto sotto, non devo essere il solo ad avere questi pensieri; ma, troppo spesso, evitando di mettere in discussione il sistema nel suo insieme si finisce per accapigliarsi all’infinito su questioni che, pur non essendo marginali, sono destinate a non trovare piena e soddisfacente soluzione finché restano inscritte in un contesto dato e non mutabile. Ne è un esempio, a mio avviso, la stessa eterna e feroce diatriba sulla modifica dell’articolo 18 quale elemento cardine della riforma del mercato del lavoro: un problema non falso, ma certo meno decisivo di quanto potrebbe invece essere una riforma capace di contemplare forme di garanzia per l’accesso e la permanenza nel mercato del lavoro (non con il diritto a quel posto fisso, ma con il reale diritto a un posto di lavoro adeguato). Solo che, per l’appunto, una riforma del genere avrebbe necessariamente forti contenuti dirigisti e statalisti, in urto con tutte le norme comunitarie e con le regole degli accordi sovranazionali.
Pensieri del tutto simili mi vengono in mente leggendo alcune delle reazioni al Festival dell’Inedito. Reazioni giustificate e spesso ben motivate, tanto da aver indotto a un parziale ripensamento dell’iniziativa e da aver causato una mezza marcia indietro di organizzatori, promotori e testimonial. Ma anche reazioni che qualche volta vanno un po’ sopra le righe, come quando sento parlare del diritto dell’aspirante autore a essere preso in esame e valutato (ovviamente gratis) dagli editori. Avendo un profondo rispetto di quelli che dovrebbero essere i diritti fondamentali, alcuni citati in Costituzione o negli statuti fondativi dei grandi organismi internazionali, mi permetto di dire che qui il termine suona davvero eccessivo e usato a sproposito.
Meglio: non lo sarebbe se tale aspettativa fosse accompagnata da una riflessione più ampia, di sistema, per l’appunto. Perché risulta poco coerente, o un po’ furbesco, essere a favore delle leggi del libero mercato fino alle loro estreme conseguenze quando si ragiona, per esempio, da consumatori (e penso ai tanti sostenitori dello sconto selvaggio come sinonimo di libertà) e poi invocare garanzie che con tali leggi confliggono apertamente. Se ragioniamo secondo le logiche di mercato, nessun autore può pretendere che la sua opera venga valutata, perché sarà libera scelta degli editori stabilire se e quanto tempo dedicare alla selezione di nuovi aspiranti scrittori, in base alla redditività di questo investimento. Così come non ci si deve stupire se qualche operatore dell’editoria “scopre” che esiste un mercato costituito dagli autori che vogliono pubblicare a qualunque costo (anche pagando di tasca propria). E non si deve gridare allo scandalo se il mercato, condizionato e orientato da chi controlla la filiera e la comunicazione, premia i calciatori autobiografi e le conduttrici di programmi tv, i comici che scrivono libri per ridere e quelli che vorrebbero scrivere prendendosi sul serio, penalizzando invece autori con tutti i quarti letterari in regola.
Per dirla tutta, io, personalmente, ci starei anche a rivedere in modo radicale le regole del gioco. Ci starei a un sistema centralista che si preoccupasse di offrire garanzie a chi scrive, a chi edita, a chi commercia al dettaglio, e naturalmente a chi legge; magari mettendo risorse a disposizione, garantendo a tutti l’opportunità di “provarci” e affidando a un riscontro il più possibile democratico, basato sull’apprezzamento qualitativo del lettore, la trasformazione della semplice ambizione in diritto a esercitare un’attività artistica e culturale in forma professionale. Ci starei a una reale estensione dei diritti, ben sapendo però che ad essi corrisponderebbero anche dei precisi doveri nei confronti della collettività. Io ci starei a eliminare gli orpelli della pubblicità e della promozione drogata per sottopormi a un tribunale del popolo, così come ci starei a rinunciare al ruolo imprenditoriale per diventare un pubblico servitore in ambito culturale. Mi accontenterei anche di meno, per la verità; ma un di meno che sia comunque un forte temperamento del liberismo selvaggio, un accesso garantito e regolamentato al mercato, un livellamento delle opportunità non solo di partenza.
Naturalmente nulla di tutto questo mi sembra alle viste. Ma temo che anche tra coloro che, punti sul vivo, reclamano diritti improponibili dentro un sistema di libero mercato, ben pochi sarebbero pronti e favorevoli a un cambiamento radicale. L’importante è rendersi conto che se si accetta un sistema se ne accettano anche le regole (almeno quelle fondanti e basilari).