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Diritti e limiti della libertà di stampa.

Creato il 27 ottobre 2013 da Catreporter79

“Il bello della democrazia è proprio questo: tutti possono parlare, ma non occorre ascoltare” -E.Biagi.

“E’ assolutamente necessario per tutti i governi che il popolo abbia una buona opinione di loro. E nulla può essere più dannoso a qualsiasi governo che il tentare di creare animosità per quel che riguarda il suo lavoro. Ciò è sempre stato considerato un crimine e nessun governo può operare con sicurezza senza che ciò sia punto.” Queste le parole di un noto giurista inglese del XVIII secolo, John Holt.

Il passo rifletteva, in sostanza, quello che all’epoca si configurava come il pensiero della diritto inglese, successivamente riassunto ed illustrato nei ” Commentaries on the Laws of England “, ossatura e principio ispiratore della carta costituzionale statunitense. La stampa era libera di pubblicare senza censure, ma nel caso in cui il suo lavoro fosse stato ritenuto lesivo della dignità del governo o del buon nome del Paese, nemmeno l’essere dalla parte della verità sarebbe stato ritenuto sufficiente per evitare la condanna del cronista e della sua testata (si veda il caso Croswell-Jackson). Tale strategia fu ulteriormente rafforzata dal Presidente John Adams, mediante il “Sedition Act”, e rimase valida fino al celebre caso dei “Pentagon Papers”, negli anni ’70 del secolo XXesimo.

La scarsa liberalità del progetto renderebbe il medesimo inapplicabile, intollerato ed intollerabile, ai giorni nostri, ma non va dimenticato, d’altro canto e in seconda battuta, il devastante potere che una porzione del giornalismo ideologico, o semplicemente dilettantesco, può avere nel momento in cui va ad intercettare un segmento di massa. Notizie false o parzialmente false, allarmismi ingiustificati, discredito lanciato, sempre, comunque ed aprioristicamente, sulle istituzioni in una sorta di riflesso pavloviano alimentato dal “crisismo” più miope, non solo svuotano il giornalismo di quello che è e dovrebbe essere il suo ruolo, così come Tucidide voleva ed insegnava, ma contribuiscono a generare un clima di sfiducia, lassismo, disfattismo, diffidenza e rancore di cui una comunità, soprattutto nelle fasi più delicate del suo percorso, non ha bisogno. Il recente caso mediatico-internetico dell’economista (in realtà dottore in Giurisprudenza) inglese (in realtà italiano) della “London School of Economic” (in realtà insegna in Giappone) che dal sito dell’ateneo (in realtà si trattava di un blog privato) dava 10 anni di vita all’Italia (in realtà la sua analisi, pur rozza ed approssimativa, confeziona un risultato differente) ne è la prova. Una delle tante. Ma altri potrebbero essere gli esempi, a corroborare questo impianto speculativo: dal trattamento riservato al fenomeno “femminicidio”, all’enfatizzazione, disancorata dal dettato statistico, della cosiddetta “fuga dei cervelli” o del presunto aumento dei suicidi per la crisi (realtà pur drammatica nei suoi contorni), ecc. Tutto contribuisce ad imbastire un’atmosfera plumbea, di disagio imprigionato ed imprigionante in un vicolo cieco all’interno del quale la ratio è bullaggiata dall’ odio, dalla menzogna e dalla sciatteria morale.

Auspicio di chi scrive è la creazione di un sistema di “filtraggio”, pur di ardua applicazione dato il carattere “anarchico” e difficilmente razionalizzabile del giornalismo, che blocchi gli azzardi più antisociali e pericolosi per il bene collettivo, nel loro essere privi di basi ed agganci scientifico-fattuali. L’ignoranza può essere innocua, mentre un sapere viziato e manomesso dalla menzogna e dal pregiudizio più livoroso può risultare letale.



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