C’è un proverbio cinese che recita: “Non importa in che posto ti trovi, sempre incontrerai qualcuno che viene da Fujian”.
Situata di fronte all’isola di Taiwan, la provincia di Fujian –terra di montagne e di poche risorse, nonchè sovrapopolata- vanta un particolare e poco invidiabile primato. Da qui proviene l’80% dei cinesi che emigra, soprattutto in forma clandestina, verso il continente americano. Dare dei numeri è difficile, ma di certo c’è che le bande criminali cinesi da anni hanno organizzato un redditizio traffico di persone. Dalle sterili province del Fujian, partono ogni settimana a migliaia per il Perù e l’Ecuador, da dove cominceranno la risalita del continente verso gli Stati Uniti. Le stime non ufficiali parlano addirittura di trenta milioni di persone che, nell’ultimo decennio, hanno abbandonato il Fujian sotto la protezione e, soprattutto, il ricatto delle organizzazioni criminali. Il loro destino è sempre incerto, già che solo una minima parte –nelle peripezie di un viaggio da venticinquemila chilometri- giunge a destinazione. La maggioranza viene rimpatriata, scompare nel nulla o muore. Nel migliore dei casi gli immigrati si accontentano di una sistemazione in uno dei tanti paesi che si trovano sulla strada di questa rotta della disperazione: Perù, Ecuador, Colombia, Panama, uno degli stati centroamericani, il Messico.
Secondo il Dipartimento di Stato degli Usa quella del Pacifico non è l’unica rotta seguita dagli immigrati. Esistono altri due percorsi: uno che passa dal Venezuela e dal Suriname e porta alle isole dei Caraibi e al Nicaragua, con destinazione finale la Florida; l’altro che scende lungo la spina dorsale andina e che tocca la Bolivia, il Paraguay e quindi Uruguay e Argentina. Da lì avviene il grande salto verso l’Europa.
Il modo d’operare della mafia cinese è semplice. Le famiglie di Fujian devono pagare tra i 15.000 ed i 20.000 dollari per garantire il viaggio di uno dei loro membri –quasi sempre uno dei più giovani- verso l’America o l’Europa. Non avendo a disposizione tanto denaro, versano un anticipo, ma a partire da questo momento, il loro futuro è in mano dei criminali a cui continueranno a pagare, praticamente per tutta la vita, il debito. Allo stesso modo, il ragazzo –o la ragazza- inviato in cerca di nuove opportunità, si trasforma invece in un ostaggio, o ancora peggio in uno schiavo, che riacquisterà i propri diritti e la propria libertà solo dopo aver saldato il debito contratto.
Fino allo scorso anno, i cittadini di Fujian venivano fatti entrare legalmente in Perù ed in Ecuador, i porti d’entrata al continente americano. Per loro, attraverso la corruzione di funzionari governativi, valeva il visto d’ingresso da turista. Poi, da questi paesi sudamericani, gli immigrati venivano fatti imbarcare su dei piccoli pescherecci, atti a trasportare una decina di persone al massimo, carrette del mare 300-400 tonnellate di stazza, stipati invece in ogni ordine di posto. Centinaia di malcapitati affrontano così gli oceani ancora oggi, nel tentativo di sbarcare sulle spiagge più isolate del Centroamerica o del Messico, per poi proseguire in treno, o nascosti in qualche Tir verso il confine.
Le autorità, già allertate sul fenomeno dalla tragedia avvenuta di fronte alle coste di Manabí, in Ecuador, quando nell’agosto 2005 affogarono 94 immigrati, si sono imbattute per la prima volta in uno di questi pescherecci il 14 ottobre 2006. Un guardacoste della marina statunitense, durante un’operazione antidroga al largo delle acque territoriali della Costa Rica, si è trovato sulla rotta di un barcone alla deriva nell’oceano Pacifico. A bordo, abbandonati dall’equipaggio quando i motori avevano smesso di funzionare, c’erano 70 cinesi e 58 peruviani.
A partire da questo momento i casi si sono moltiplicati. Oltre i naufragi -il 25 maggio due imbarcazioni hanno fatto collisione di fronte alle coste del Nicaragua: entrambe erano colme di immigranti- la cronaca registra arresti di massa, su intere comitive di illegali che vengono fermate non solo sulle spiagge e nelle campagne, ma anche nel profondo delle foreste.
A giugno è la polizia messicana a denunciare un aumento degli emigranti cinesi. Gli orientali vengono mischiati ora ai gruppi di centroamericani che, guidati dai coyotes, tentano di entrare negli Usa. Vengono fermati un po’ ovunque, dal Chiapas fino a Sonora, quando sembra ormai che la loro odissea sia giunta alla fine.
In pochi mesi, alla luce di questi fatti, la situazione è cambiata. Con il ripetersi di questi avvenimenti, quasi tutti i Paesi latinoamericani hanno iniziato a rifiutare i visti turistici dei cinesi provenienti dalla zona di Fujian. Una misura che, sebbene sia volta a reprimere il flusso migratorio illegale, di fatto condanna migliaia di persone a dover seguire percorsi sempre più tortuosi pur di librarsi dal giogo della mafia.
Il traffico di persone è un affare altamente redditizio. Le mafie cinesi che vi si dedicano, riportano guadagni da almeno mezzo milione di dollari al giorno solo sulle rotte sudamericane. Si tratta di cifre che fanno girare la testa e che coinvolgono in prima persona non solo i malpagati funzionari statali, ma anche politici navigati.
Almeno due casi eclatanti si sono registrati negli ultimi mesi. Il primo ha come protagonista uno dei fratelli dell’ex presidente peruviano Alejandro Toledo che, facendo valere le proprie conoscenze, avrebbe garantito l’estensione di duecento visti in un periodo di tre mesi; l’altro, riguarda l’ex Capo dello stato nicaraguense, Enrique Bolaños, trascinato dall’ex direttore dei Servizi di migrazione, Fausto Carcabelos, in uno scandalo dagli stessi toni. Un solo visto per un cittadino cinese può avere il valore di alcune migliaia di dollari: una tentazione difficile da resistere
Nel gennaio scorso, gli inquirenti che lavorano sulla penetrazione delle mafie cinesi in America Latina, ricevono un’altra notizia inquietante. Un’organizzazione mafiosa cinese, attraverso un intermediario, offre al direttore dei servizi di migrazione della Costa Rica, Mario Zamora, una mazzetta di due milioni e mezzo di dollari per avvalersi della concessione di permessi di residenza nel Paese. Al rifiuto sui visti, si prova ora con la strada dei permessi di lavoro o di soggiorno. Il funzionario, questa volta, denuncia la situazione e le indagini che ne sono seguite portano all’arresto di varie persone, integranti di almeno cinque bande differenti, tutte impegnate nel gestire il traffico di persone provenienti dall’estremo Oriente.
È un altro pezzo del puzzle, che va unito a quanto scoperto dalle autorità peruviane, che ritengono che diverse associazioni di commercio o di solidarietà ai cinesi emigrati, in realtà non siano altro che società di comodo che celano i punti di smistamento degli immigrati. La situazione del Perù è particolarmente ingarbugliata, già che non esiste legislazione sulla detenzione di cittadini di altri paesi che entrino illegalmente nel Paese: gli stessi,dopo aver fornito le generalità, vengono quindi liberati dopo ventiquattro ore, con la sola raccomandazione di fornire un indirizzo di residenza temporale. Proprio facendo leva su queste lacune delle leggi dei paesi latinoamericani, le mafie riescono quasi sempre a favorire l’integrazione dell’immigrato illegale e a concludere la propria parte del patto. Sebbene la maggioranza non riesca a giungere nemmeno vicinamente agli Stati Uniti, la loro collocazione in qualsiasi posto, pur che non sia la Cina, sembra soddisfarli.
Per i cinesi, una volta giunti sul suolo americano, qualsiasi sistemazione sembra andare bene. Perù, Ecuador, Costa Rica e Panama hanno visto in questi ultimi anni uno spropositato aumento della popolazione proveniente dalla Cina. A Panama, la colonia cinese ufficiale conta 125.000 persone, rappresentando già il 5% degli abitanti del Paese. Il piccolo commercio, composto dalle tradizionali drogherie di rione fino ai mini-super, è gestito oggi dagli orientali. Sono bastati pochi anni per cambiare la fisionomia dei quartieri, soprattutto quelli popolari. La figura del “chino”, che vende ogni sorta di genere o di prodotto, si è fatta ricorrente ed è diventata parte del quotidiano.
I proprietari di questi bugigattoli, spesso insalubri, stipati fino all’inverosimile, chiudono contratti con gli intermediari in Cina per l’invio di ragazzi e ragazze che vengono poi sfruttati: in cambio di uno stanzino dove dormire e un piatto di riso e fagioli, i malcapitati devono lavorare gratuitamente per dieci-quindici anni senza orari stabiliti e privati di giorno di riposo. Sono questi i nuovi schiavi dell’America Latina, allontanati dalle loro famiglie, immersi in una cultura sconosciuta, distanti migliaia di chilometri dalle loro case e a completa disposizione di crudeli capataz. È una forma di lavoro gratuito e forzato, che sfugge alla legalità e che, per tutti, ufficialmente non esiste.
Come se si fosse trattato di un codice non scritto, per anni le autorità non hanno voluto immischiarsi negli affari dei cinesi. I primi regolamenti di conti hanno rivelato come le organizzazioni mafiose fossero ormai penetrate con forza nel sociale latinoamericano. Sradicarle ora, è diventata un’impresa troppo difficile. In fondo, i nuovi schiavi servono al rilancio delle economie.