"Famiglia di acrobati" Picasso
Cari lettori, condivido con voi l'estratto di un articolo da me pubblicato sulla rivista "Questioni di diritto di famiglia", Maggioli Editore.Il primo dicembre 2009 è entrato in vigore il Trattato dell’Unione Europea, firmato a Lisbona nel dicembre 2007 il quale dichiara che i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, fanno parte del diritto dell’unione in quanto principi generali.
Emerge il ruolo preponderante del diritto “di relazione”[ ] che regola i conflitti, tutela le identità, assicura la protezione delle aspettative legittime, nel rispetto della parità e della dignità delle persone [ ], in cui l’identità è il risultato dell’incontro e della comunicazione, implicante una dinamica dialettica, tra varie identità culturali, sociali, che non sono da intendere come mondi chiusi, autosufficienti, incommensurabili e immodificabili ma disponibili, entro una logica multirelazionale, a generare nuove pratiche di diritto comune nelle quali si inscrive la mediazione familiare. Queste pratiche, considerano il punto di vista dell’altro, l’autoriflessione e la revisone [ ], all’interno di principi preesistenti, che sono quelli propri dello stato di diritto costituzionale e che devono portare ad un impegno notevole per dare effettività ai diritti umani e fondamentali [ ].
Purtroppo, oggi, il diritto è stato completamente svuotato della sua identità, privo di quell’intima consapevolezza del proprio valore, senza di cui l’esperienza giuridica diviene cieca, non è più se stessa. L’applicazione nichilistica del diritto, nella sua forma positiva necessaria a garantirne la certezza, è diventata l’unico titolo della sua validità, l’unico criterio della sua giuridicità, come strumento per piegare e dirigere l’azione verso qualsiasi avventura, per assicurare validità oggettiva allo stesso arbitrio [ ]. Ecco allora che, a mio avviso, nel diritto e con il diritto si fa spazio la mediazione familiare definita comunemente come intervento finalizzato a gestire il conflitto per il maggior interesse delle parti e che si pone oltre il diritto.
Ebbene, ritengo che è proprio l’esperienza dell’ingiustizia, derivante dalla sterile applicazione della “norma” che dia vita all’esigenza, altresì nel nostro sistema giuridico civil low [ ], della mediazione familiare intesa come reale espressione dei bisogni delle parti, possibilità che si da all’uomo di dare applicazione ai diritti umani e fondamentali. Tale ragion d’essere non è la stessa del diritto? Infatti, al giurista si chiede di trasformare il conflitto, e il mediatore, nella specificità della sua professione, adempie a tale onere e onore, sostenendo il riconoscimento di un diritto e confrontando dialetticamente le ragioni che suffragano la richiesta di riconoscimento del diritto di due o più persone.
Il fondamento dei diritti umani, riemerge necessariamente nella fase interpretativo-applicativa degli stessi. In particolare, occorre precisare che il disaccordo non verte sui diritti umani, ma sulla priorità degli uni rispetto agli altri. Il conflitto tra diritti rimanda allora al fondamento, poiché questo può contribuire a individuare i criteri per risolverlo [ ]. La mediazione familiare, a mio avviso, non si spinge oltre il diritto, ma gli dà quella voce che esso ha perso ai nostri tempi. Pertanto, essa costituisce uno strumento privilegiato per contemperare tutti i bisogni delle parti in conflitto nelle fattispecie reali e in particolare, nei conflitti familiari, dando quindi la possibilità al diritto di emergere e di operare nel mondo reale.
L'universalità dei diritti umani è storicamente e culturalmente condizionata dai nostri modi di pensare e di riflettere ed è pertanto un obiettivo da raggiungere e non un principio di partenza. Tale universalità rimanda alla capacità comunicativa tra soggetti e culture che, senza perdere la loro identità, si fanno intendere dall’altro, interagendo significativamente con esso.
L'universalismo viene quindi riconfigurato come «l'orizzonte d'intesa» di più particolari: un orizzonte che può sussumere dentro di sé l'idea di una pluralità di punti di vista particolaristici, talché il consenso sui diritti umani, che trova la sua massima esplicazione nel diritto di famiglia, dovrà avvenire attorno a un insieme aperto e pluralistico di percezioni etiche essenziali, che partono dagli specifici, particolari contesti culturali, ma che tendono a trascenderli, nella prassi della interazione comunicativa. Tale universalismo dà pertanto la possibilità di essere effettivamente pertinente ed applicabile per tutte le parti coinvolte nel conflitto, non soltanto per quelle che vivono ed operano nello stesso contesto ma anche per coloro che vivono e operano in contesti del tutto differenti (es. controversie internazionali, ove i costrutti familiari appartengono a culture molto differenti, senza escludere coniugi che appartengono alla stessa nazionalità, ma “stranieri” l’uno per l’altra, con un vissuto personale e familiare agli antipodi con quello dell’altro).
I diritti umani si configurano come il bisogno comune dei nostri tempi e che possono realizzarsi pragmaticamente attraverso il processo di mediazione familiare. Pertanto, l'accordo sui diritti umani esprime, secondo Pastore, la convergenza pratica delle più diverse ideologie e delle più svariate tradizioni, mentre il dialogo costruttivo intorno al fondamento di tali diritti intrapreso ed attuato attraverso la mediazione familiare, aggiungo, costituisce un modo per rafforzare la loro protezione ed è un servizio reso alla causa del rispetto degli esseri umani e alla pace.
La ratio della mediazione, tanto quella del diritto è quella di operare una continua apertura sul reale e la volontà di ristabilire la relazione tra le persone configgenti, la disponibilità alla tutela della relazione intersoggettiva: autentico bene da proteggere, per condurre i litiganti verso una vera e propria trasformazione personale [ ]. Paolo Ferrua sosteneva che l’essenza del contraddittorio «sta nel diritto delle parti di interloquire, in condizioni di parità, sui temi oggetto della decisione e, correlativamente, nell’esigenza che questa sia emanata secondo prospettive esaminate e discusse dagli antagonisti».
«Per noi, terrestri, solo nella controversia si danno giusto e ingiusto così come solo nel discorso si danno vero e falso». Con queste parole comincia lo studio di Francesco Gentile Su linguaggio e diritto, pubblicato in appendice al volume Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà[ ]. Pertanto, il contraddittorio è visto come strumento di tutela dei diritti processuali delle parti attuativo di “giustizia” in quanto tale, metodo della “decisione giusta” che non significa dare applicazione alla norma, ma relazionare (in contraddittorio) le parti tra di loro per dare effettività e fondamento ai loro bisogni, tutelando pienamente i diritti umani. Questi forniscono il modo di parlare di 'ciò che è giusto' da una speciale angolatura: il punto di vista dell'altro, a cui spetta il riconoscimento di un diritto e a cui verrebbe fatto un torto se gli venisse negato.
Francesco Gentile ha affermato che la controversia è “misura dialettica” del diritto, in quanto «oggetto della controversia è il riconoscimento del diritto sulla cosa che ciascuna delle parti rivendica come proprio e persegue dialetticamente, dimostrando che nella tesi avversaria è presente, e condizionante la stessa, qualcosa che, se radicalmente tematizzato, la fa cadere in contraddizione e la riconduce alla propria versione dell’ordine». Pertanto, la trasformazione del conflitto in effettività del diritto attua il riconoscimento, sempre inesausto e rivedibile, ma autentico se convenientemente condotto, di ciò che è proprio delle parti in causa», quel riconoscimento, appunto, che sostanzia la “decisione giusta” [ ].
La decisione giusta “attribuisce a ciascuno il suo” [ ], attraverso la dialettica delle parti in contraddittorio e che la decisione è giusta quando si dà pieno ascolto ai bisogni ed alle istanze delle parti, strumento e fine della mediazione, per un “accordo di giustizia”. Perché ciò accada, occorre spingersi negli anfratti della pedagogia giuridica e, in particolare, della educazione alla mediazione familiare.
La famosa favola di Fedro “Il lupo e l’agnello” racconta di un lupo e di un agnello che, spinti dalla sete, si ritrovarono a bere nello stesso ruscello; il lupo era più a monte, mentre l’agnello beveva ad una certa distanza, più a valle. Tuttavia la fame spinse il lupo ad attaccar briga e a chiedere all’agnello perché osasse intorbidirgli l’acqua e a seguito di tali accuse senza fondamento, il lupo saltò addosso all’agnello e se lo mangiò.
Il semplice pragmatismo della ragione secondo il quale il lupo mangia l’agnello, il più debole soccombe al più forte può e deve essere superata attraverso l’educazione, area nella quale la presenza del mediatore familiare potrebbe essere colta come occasione, non solo per giungere ad un accordo reciprocamente vantaggioso per le parti, ma per dare spazio alla relazionalità tra le stesse, alla fine di un percorso in cui entrambi hanno – appunto - superato la soglia della natura guadagnando l’apogeo della cultura che soverchia gli istinti e dà forma all’umano”[ ].
Pertanto, la mediazione familiare costituisce la nuova frontiera del diritto: l’avvocato deve favorire un processo di apprendimento del proprio assistito affinché si muova nell’area della educazione alla mediazione familiare; area nella quale saranno i difensori che, con una formazione specifica, lavoreranno con le parti per arrivare ad una composizione costruttiva del conflitto dove non ci saranno sconfitti ma nel quale si acquisirà un “valore aggiunto” (e non un semplice compromesso), volto a costruire i rapporti e non a eliderli. Fondamentale sarà l’estrema collaborazione di tutti i professionisti che, nella specificità delle loro professioni, operano per la gestione dei conflitti e che saranno i primi promotori della mediazione. Infatti, la conflittualità è una condizione esistenziale ineliminabile che caratterizza tutti gli esseri umani e che può sfociare tanto nella crescita creativa e costruttiva di entrambe le parti coinvolte, quanto in una situazione negativa drammaticamente distruttiva.
Haynes[ ] sostiene che essa sia un evento naturale e non negativo, e soprattutto che possa essere considerata come un’opportunità per crescere: la risposta potrà essere cooperativa o distruttiva. Sarà distruttiva quando i difensori stimoleranno le parti ad acuire il conflitto, a facilitare e delle volte a provocare la distruzione delle relazioni [ ], facendosi portavoci della rabbia del cliente: pertanto il procedimento giudiziario, con la definizione di un vincente e di un perdente creerà una situazione di squilibrio tra le parti, dove assumeranno rilevanza anche gli elementi di contesa di scarsa rilevanza pratica, che diventeranno importanti nella disputa giudiziaria, aumentando la conflittualità di fondo; si instaurerà un ingranaggio nel quale la legge risulterà limitata e limitante, dove altri decideranno al posto delle parti (l’autorità giudiziaria).
La conseguenza di questo “iter distruttivo”, a causa delle incongruenze tra i modelli ideali da attuare (norma) e la capacità di realizzarli, non risolverà il conflitto ma lo sospenderà, perché riemerga acutizzato in seguito. Quando infatti non sono entrambi i contendenti a riconoscere le disposizioni emanate come giuste, essi non riusciranno a rispettarle e questo assumerà il significato pratico di ulteriori ricorsi, altre udienze contrastando ai reali interessi delle parti, contro l’economia giudiziaria e contravvendo alla possibilità di un giusto processo.
Quando invece, gli avvocati in primis, aderiranno ad una concezione della legalità intesa in senso pedagogico, quale strumento per educare - fare emergere - tirar fuori non le posizioni ma gli interessi reali delle parti allora ne risulterà un ordine, generato da tutti coloro che operano, come gestori del conflitto, dato dall’armonia di elementi diversi ed addirittura opposti (le rispettive posizioni), e non dalla mera creazione di contenitori (le decisioni di diritto), che isolano, semplificando le differenze ed i contrasti.
L'educatore perciò non può essere paragonato ad un istruttore: egli è piuttosto una guida, un esperto che aiuta gli educandi a riconoscere se stessi e la propria personalità. Con il termine educazione, compresa l'educazione alla legalità, pertanto, si indica un processo più ampio, che coinvolge la formazione della personalità.
Il diritto all'educazione deriva dalla natura della persona umana, la quale ha "bisogno" di essere educata per realizzarsi. L’educante, non potrà considerare l'educando una mera tabula rasa, sopra la quale è lecito scrivere qualsiasi cosa, ma una personalità che ha il diritto di essere guidata, fino al raggiungimento di una piena autonomia critica e di azione. Perciò i giuristi hanno il dovere di farsi difensori di ciò che si potrebbe definire come il diritto all'identità personale.
Se l'istruzione ha come fine ultimo quello di creare uomini dotti, l'educazione mira a cambiare la persona, non in quanto impone un modello di uomo, così come considerato dalla coscienza collettiva ottimale, ma piuttosto perché gli fornisce degli strumenti e i valori, che rendono l'educando consapevole delle proprie potenzialità. I difensori, pedagoghi legali, educatori alla mediazione familiare, faciliteranno una gestione costruttiva del conflitto tra le parti ed le educheranno a trovare, attraverso una logica negoziale basata sul raggiungimento degli interessi, accordi più favorevoli per tutte le parti coinvolte nel conflitto.
L’autorità giudiziaria, grazie all’apporto costruttivo dei difensori sarà facilitata nell’emanare provvedimenti che siano il più vicino possibili alle esigenze delle parti in una fase critica del loro rapporto; i giudici potranno invitare le parti a servirsi di centri di mediazione, e saranno gli stessi difensori, a promuovere il processo di mediazione familiare.
Le parti, seguite dai difensori, educatori alla mediazione, si relazioneranno in un’ area nella quale saranno impegnati per lavorare sui loro interessi e quindi per raggiungere un accordo nel quale siano tutti pienamente soddisfatti: area educazione alla mediazione. In queste aree, si riscontra una dipendenza reciproca degli esiti dei comportamenti, ossia le parti si trovano in una condizione di interazione strategica, per cui gli effetti dei comportamenti dell’una dipendono anche dai comportamenti dell’altro.
Tuttavia, quanto più ognuna delle parti abbia un’informazione imperfetta rispetto ai comportamenti dell’altra, tanto più si determinerà un’incapacità di prevedere esattamente le scelte e gli atteggiamenti reciproci. Pertanto, ai confini di questa, si porrà l’area della forza, ossia l’area del dominio di un campo di forza sull’altro quando si consenta un divario di potere a soluzioni unilaterali.
Il campo di forza potrà determinarsi qualora si verifichi uno squilibrio di potere tra le parti (indebolimento economico dell’altro, false accuse), campo nel quale gli avvocati avranno un ruolo quasi decisivo se non determinante: essi potranno condurre l’assistito in un processo di apprendimento dei propri interessi, al di là delle prese di posizione, oppure ad alimentare lo squilibrio di potere tra le parti, favorendo il contenzioso e l’impasse nell’area della forza.
Quest’ultima sarà intensificata dallo squilibrio di potere tra le parti che provocherà l’intervento dell’autorità giudiziaria che deciderà autoritariamente rispetto al futuro delle stesse, sostituendosi alle parti in conflitto; al contrario, tanto più spazio sarà dato all’area della mediazione, maggiore sarà la prospettiva di una composizione costruttiva dei conflitti dove saranno le parti in primis a decidere responsabilmente sul loro futuro. L’indifferenza sarà l’altra area confinante con quella dell’educazione alla mediazione familiare, dove le parti non si relazioneranno tra di loro: una delle parti cercherà di mantenere lo status quo e non sarà motivata a raggiungere un accordo; non collaborerà con l’altra e sarà “incastrata” in una determinata posizione che la renderà “cieca” e “sorda” rispetto alle aspettative della parte provvisoriamente più “debole” coinvolta nel conflitto.
Tuttavia, si ribadisce, che soltanto una parte potrà muoversi nell’area dell’indifferenza, e per un breve lasso temporale, in quanto l’altra parte “controbatterà” nell’area della forza: questo accade quando una delle parti tutela il “indifferentemente” il proprio interesse, a discapito dell’altra parte che invece non è soddisfatta in quanto “bloccata” in una determinata posizione. Infatti, nell’area della forza ed in quella dell’indifferenza ciascuna delle parti deciderà di adottare un atteggiamento individualistico finalizzato esclusivamente alla massimizzazione del proprio tornaconto personale (in ognuna di queste aree si verificherà un’assenza assoluta di comunicazione).
Tuttavia, la coppia di strategie che produce un esito finale più desiderabile, nella gestione dei conflitti, non è, come si potrebbe pensare, quella che viene adottata in base ad un criterio di scelta puramente razionale. Le parti, se mosse esclusivamente dal perseguimento del proprio interesse personale, sono portate a scegliere di non collaborare con l’altro, dando tuttavia origine ad una situazione sub - ottimale anche per se stessi, oltre che alla situazione peggiore per le parti in conflitto.
Gli avvocati – mediatori, dovranno passare dal ruolo di difensori - operatori del contenzioso, al ruolo di difensori - mediatori. Mentre l’avvocato contendente si farà condizionare emotivamente dallo stato d’animo dell’assistito, vivrà a sua volta troppo emotivamente la trattativa puntando quindi ad una sola soluzione, l’avvocato – educatore alla mediazione familiare, avrà un maggiore controllo sulle emozioni esaminando e progettando più di una soluzione.
Mentre l’avvocato contendente si limiterà a registrare la vittoria sulla controparte o l’impossibilità di giungere ad un accordo nei termini in cui l’aveva prefigurato, l’avvocato educatore alla mediazione considererà la stessa come uno strumento ottimale per risolvere il problema e di conseguenza il suo impegno sarà focalizzato sui reali interessi delle parti in conflitto, assumendosi la piena responsabilità dell’esito della gestione del conflitto. In molte controversie, le parti dovranno interagire per lungo tempo tra loro che lo vogliano o no (si pensi ai conflitti tra condòmini o tra soci); pertanto, i loro comportamenti potranno essere influenzati dalla variabile dell’apprendimento del comportamento dell’altro che porterà entrambi a modificare il proprio grado di informazioni circa il loro comportamento reciproco.
Di conseguenza, il difensore - educatore alla mediazione introdurrà strategicamente elementi nuovi da valutare educando il proprio assistito a scegliere atteggiamenti collaborativi anche in situazioni “strutturalmente” non cooperative. Se infatti le parti continueranno ad adottare una strategia di comportamento dominante, saranno condannate nel lungo periodo a perdite ingenti.
Nel caso in cui sia soltanto una parte a decidere di assumere un atteggiamento cooperativo e l’altra no, nella mossa successiva è molto probabile che anche la prima decida di adottare una strategia “ritorsiva” innescando un meccanismo inesorabile e autodistruttivo: comportamenti non collaborativi saranno immediatamente puniti con risposte altrettanto non collaborative, mentre comportamenti corretti saranno parallelamente premiati con fiducia e comportamenti altrettanto corretti.
Nel corso di una controversia, risulta difficile dar fiducia all’altro: ciò diventa possibile però grazie al processo di apprendimento alla mediazione posto in essere dai difensori – educatori alla mediazione con la collaborazione di tutti i professionisti che, a diverso titolo operano per nella gestione dei conflitti: nel caso esaminato nella sentenza, se entrambe le parti adotteranno una strategia cooperativa, (collaborazione con gli assistenti sociali per lo sviluppo socio-pedagogico dei figli ed educazione alla mediazione praticata dal proprio difensore), si arriverà nel tempo ad atteggiamenti collaborativi stabili tanto che sarà nuovamente possibile il processo di mediazione familiare con invio da parte del giudice, dei difensori o delle parti.
Ebbene, il mediatore considera l’educazione alla relazione interpersonale come obiettivo primario in sé: da qui discende l’importanza di competenze quale quella dell’empatia e dell’intelligenza emotiva, ovvero di quelle competenze trasversali legate più al saper essere, che combinate al sapere e al saper fare vanno a comporre l’expertise dei mediatori familiari.