Domenico Bresolin nasce a Padova nel 1813 e muore a Venezia nel 1899. Cresciuto con i lavori di Francesco Bagnara, architetto e notevole pittore e scenografo con cattedra all’Accademia, Bresolin, come paesaggista, rompe con la tradizionale veduta di maniera per lasciarsi sopraffare dall’immediatezza del dipinto dal vero. Dotato nella tecnica pittorica, assume l’incarico di maestro di paesaggio all’Accademia delle Belle Arti di Venezia. In questo ruolo contribuisce alla formazione, similmente a Pompeo Molmenti, di una nuova generazione di pittori, Ciardi e Favretto tra decine d’altri. Prendono qui coerenza ed identità gli elementi fondanti la pittura veneta dell’ 800, in paritario confronto e assonanza con i Macchiaoli toscani e gli Impressionisti francesi.
Alle secolari caratteristiche di luminosità e colore della pittura veneta, in Bresolin prende forma un realismo romantico che dà conto della crescente povertà veneta post-unitaria. Bresolin anticipa tutto nella sua opera più famosa, quella “Casa diroccata” emblematica della fine dell’età imperiale veneta e dell’attuale rovina. Negli stessi anni in cui Venezia ammalia un trasognato Chateaubriand con la sua esiziale caducità di capitale espropriata e asservita a una incomprensibile modernità, negli stessi anni in cui nella città di San Marco, la bellezza prodotta in mille anni si svende per sopravvivere, Bresolin esce dai confini lagunari e va a ritrarre una morente architettura rurale attanagliata da una natura indifferente e sorda (è stupefacente il fatto che ancora oggi identiche istantanee costellino il territorio regionale). Il classico, nella pittura veneziana, tema della “veduta”, passa dal rigorismo prospettico e dal gusto scenografico, al moto romantico. In controluce l’opera da conto di una rimozione della rivoluzione scientifica ed industriale in corso che squassa l’Europa tutta; come quella Venezia che per i futuristi sarà passatista, in realtà, la Casa diroccata di Bresolin si sottrae alla positivista utopia montante del dominio dell’uomo sulla natura, già intravedendo che il “progresso” sì si realizza, ma non rende l’uomo felice.