Sono una disadattata, si sa. Il mio disagio sociale si esprime in particolar modo durante le ferie d'agosto, quando l'horror vacui delle giornate in spiaggia mi porta sull'orlo della disperazione.
Ci ho provato, ci ho tentato anche quest'anno, in cui ho scelto una meta talmente cool che a tutti gli italiani e buona parte della popolazione mondiale era venuto in mente di andare in vacanza proprio lì, fra gli ulivi e gli scogli della costa salentina.
Vabbe'.
Non ho staccato.
Non ho staccato il blackberry, e l'unico giorno in cui non sono riuscita a reperire un quotidiano entro le 12 ho rischiato il tracollo nervoso. L'Italia, con il suo calore umido e avvolgente, mi ha martellato sapientemente i nervi riportato a galla come di consueto vecchie ferite e questioni mai risolte.
(Ma se elevo l'ansia alla seconda e la sommo alla radice quadrata di quel litigio, dividendo poi tutto per il numero di giorni che siamo stati separati, e uso come coefficiente il prezzo della somma di tutti i voli che abbiamo preso, forse esce fuori il motivo per cui ci siamo mollati. No, riprova. Forse manca una variabile. Vediamo, il logaritmo dei chilometri di distanza...)
E rimpianti, e giù ripensamenti, un umore repellente, a consolarmi solo il 3G che mi consentiva di riposare lo sguardo su Twitter e sospirare nostalgica sulle mail di lavoro.
La realtà è che quando vado in Italia mi sendo una perdente di prima categoria, nel Grande Gioco della Vita. Sparisco. La mia identità si scioglie al caldo come una candela. Tutto quello che faccio nel mio quotidiano che mi fa sentire discretamente bene e fiera di me stessa, non esiste più. Perde valore di fronte al tradimento del sogno nazionale del non fare un cazzo e godersi la piadina al crudo tutte le sere passeggiando per città esteticamente più gradevoli di place St. Catherine.
Ommioddio che cosa ho fatto. Guarda a cosa ho rinuciato, per una manciata di articoli anglofoni su argomenti oscuri. Guarda come sono imbruttita interiormente, che non sopporto più nessuno. Come ho potuto rinunciare al barista che ti attacca bottone mentre fa quel sublime caffè ed esce perfino a comprare le arance per farti la spremuta.
Mi riscopro, in Italia, un essere umano di scarso spessore, un robot a cui staccata l'elettricità del tran tran quotidiano si accartoccia, nella mia colpevole nostalgia dell'adrenalina lavorativa. Nel mio timido tentativo di far valere le mie piccole grandi conquiste sul campo minato della Bolla.
I Veri Valori della Vita, che tutti mi indicano con aria grave, li ho probabilmente lasciati nello scomparto bagagli easyjet un giorno e mai più ritrovati. Quel volemose bene, quel poveri ma belli che caratterizzava gli anni bui dove a uno stage seguiva un altro stage, intervallato da un lavoro in nero a cinquecento euro al mese. Che mi avrebbero condotto ad una più sana vita familiare tirando la cinghia ma in allegria, invece che ritrovarmi ormai ricca e famosa (ahahahah) ma irrimediabilmente indietro, una ritardata degli step sociali che si confanno ad una donna, oggi come ieri.
E mi ritrovo all'aeroporto sulla via del ritorno desolata, svuotata, lacrimevole e sperduta, a ingozzarmi di provola in carrozza come se non ci fosse un domani, stringendo la Repubblica come una coperta di Linus.
(Gli aerei sono pieni di gente che dice che a Bologna ci vivrebbe. Ma non lo fa nessuno, poi).
Ah ma da settembre si torna ogni weekend. Facciamo ogni due. Tocca mantenere il legame con queste radici che rischiamo di perdere. Poi magari si torna del tutto. Si si, l'anno prossimo si torna. Ora mi organizzo ben bene, vedo cosa si può fare.
Dopo un giorno di lavoro torno in me, per fortuna. Mi tasto le braccia, la faccia, e mi sembra di essere rinata. Ho di nuovo un senso, il mio scopo banale e limitato e non nobile è scrivere articoli, il mondo riprende colore sotto la cappa grigia delle nuvole.
Se non fosse per l'obbligo morale di abbronzarsi, potrei quasi dire con serenità che alla spiaggia e allo struggimento estivo del Belpaese ci rinuncerei per sempre.